martedì 8 novembre 2022

Frate Cipolla

 A Certaldo, paese della Valdelsa, era solito andare ogni anno a raccogliere le

elemosine fatte al suo ordine dagli sciocchi un frate di Sant’Antonio, che si chiamava Frate Cipolla, accolto volentieri non meno per il suo nome che per la devozione alla Chiesa, anche perché quel territorio produce cipolle famose in tutta la Toscana. 

Frate Cipolla era piccolo, rosso di capelli e con la faccia simpatica; amava molto le allegre compagnie; inoltre, pur essendo ignorante, era un ottimo parlatore e pronto alla battuta. 

In quella campagna era compare, amico o conoscente quasi di tutti. 

Secondo le abitudini, il mese di agosto andò, tra gli altri paesi, anche a Certaldo, e una domenica mattina, mentre tutta la buona gente dei dintorni era convenuta alla messa nella chiesa parrocchiale, quando gli parve giunto il momento giusto, si fece avanti e disse:

 – Signori e donne, come voi sapete è vostra usanza mandare ogni anno ai poveri dell’illustre Sant’Antonio parte del vostro grano e delle vostre biade, chi poco o chi molto, secondola dimensione del podere e della propria devozione, affinché il Beato Sant’Antonio faccia per voi la guardia ai buoi, agli asini, ai maiali e alle pecore vostre;oltre a ciò siete soliti pagare quella piccola quota che si paga una volta all’anno.

Io sono stato mandato dal mio superiore, l’abate, a raccogliere le vostre offerte e perciò, con la benedizione di Dio, all’ora di vespro, quando sentirete suonare le campanelle, verrete qui, fuori dalla chiesa, là dove, come siamo soliti fare,terrò la mia piccola predica e voi bacerete la croce. 

Oltre a ciò, poiché so che siete tutti devotissimi di Sant’Antonio, vi farò una grazia particolare: vi mostrerò una santissima reliquia, che io medesimo portai dalla Terrasanta5, oltremare.

 Sitratta di una delle penne dell’arcangelo Gabriele che rimase nella camera della Vergine Maria quando l’angelo le portò la lieta novella in Nazaret.

Detto questo, tacque e ritornò alla messa. 

Tra i molti presenti nella chiesa, quando Frate Cipolla diceva queste cose, c’erano anche due giovani molto astuti, che si chiamavano Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini, i quali, dopo aver riso tra sé della reliquia del frate, di cui tuttavia erano molto amici, decisero di fargli uno scherzo a proposito di quella penna.

Avendo saputo che frate Cipolla quel giorno avrebbe pranzato nel centro del paese

con un amico, appena seppero che si era messo a tavola, andarono all’albergo dove il frate aveva lasciato i suoi bagagli, con questa intenzione: che Biagio distraesse il servo di frate Cipolla, mentre Giovanni cercava tra le cose delfrate quella penna, facendola poi sparire, per vedere come poi se la sarebbe cavata frate Cipolla quando avesse dovuto mostrarla ai fedeli.

Frate Cipolla aveva un servo, che alcuni chiamavano Guccio Balena, altri Guccio Imbratta, altri ancora Guccio Porco. 

Questi era veramente un cattivo soggetto, pieno di ogni possibile difetto.

 A lui, lasciandolo all’albergo, frate Cipolla aveva affidato le sue cose, ordinandogli di non lasciare avvicinare nessuno che lepotesse toccare, specialmente le sue bisacce, che contenevano le reliquie.

 Ma Guccio Imbratta era più desideroso di stare in cucina, che un usignolo sopra i verdi rami, soprattutto se il suo fiuto di donnaiolo gli faceva sentire la presenza di una donna. 

Avendone vista una nella cucina dell’albergo, grassa e grossa, piccola e malfatta, con un paio di poppe così grosse, che sembravano due recipienti per portare il letame, tutta sudata, unta e affumicata, Guccio Imbratta si precipitò nella cucina come un avvoltoio che si getta su una carogna, dopo aver lasciato la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose abbandonate. 

Per quanto fosse agosto, Guccio si pose a sedere vicino al fuoco e cominciò a parlare con la cameriera, che si chiamava Nuta, e a raccontare un mucchio di fandonie, per rendersi interessante, ma lei non si lasciò ingannare dalle vanterie di

Guccio, che non riuscivano a nascondere la realtà del suo abito sbrindellato, del suo cappuccio unto, dei suoi discorsi vuoti.

I due giovani trovarono dunque Guccio Porco impegnato a circuire la Nuta e, contenti di ciò, poiché evitavano metà della fatica, senza trovare ostacoli, entrarono nella camera del frate, che era aperta. Videro subito la bisaccia e, dentro di essa, avvolta in un drappo di seta, trovarono una cassettina, in cui c’era una penna di pappagallo, di quelle della coda. 

Capirono che si trattava di quella, che egli aveva promesso di mostrare ai certaldesi. 

Certo a quei tempi era facile far credere che la penna fosse di origine angelica, poiché le usanze lussuose dell’Oriente non erano passate in Toscana, se non in piccolissima parte; se erano poco conosciute altrove, in quella contrada non lo erano quasi per nulla, anzi, poiché a Certaldo perdurava ancora la semplicità un po’ rozza degli antichi, non solo non avevano mai visto dei pappagalli, ma, per la maggior parte, non ne avevano mai sentito parlare.

I due giovani, dunque, contenti per aver trovato la penna, la presero e, per non lasciare la cassettina vuota, visti dei pezzi di carbone in un angolo della stanza, riempirono con quelli la cassetta, quindi la richiusero e lasciarono ogni cosa come l’avevano trovata. Senza essere visti da alcuno, si allontanarono con la penna e cominciarono ad aspettare che cosa avrebbe detto frate Cipolla trovando carboni al posto della penna.

I fedeli semplicioni che erano nella chiesa, sentendo che avrebbero visto la penna dell’arcangelo Gabriele, terminata la messa tornarono a casa e sparsero la voce. 

Così, dopo il pranzo, una gran massa di uomini e donne si affollò nel centrodel paese, tanto che vi si stava a stento, tutti con un gran desiderio di vedere la famosa penna. 

Frate Cipolla, dopo aver ben pranzato e ben riposato, alzatosi poco prima delle quindici, si accorse che si era ormai radunata una gran quantità di contadini per vedere la penna; allora mandò a dire a Guccio Imbratta di venire con le campanelle, portando le bisacce. 

Questi, staccatosi con qualche fatica dalla cucina e dalla Nuta, raggiunse il centro del paese a passo lento, ansimando, perché il bere smodatamente lo aveva appesantito. 

Seguendo gli ordini di frate Cipolla, si pose sulla porta della chiesa e cominciò a suonare le campanelle. Quando tutto il popolo si fu radunato, frate Cipolla, senza essersi accorto

di ciò che era successo alle sue bisacce, cominciò la sua predica e fece un lungo discorso, molto opportuno per i suoi scopi. Poi, essendo giunto il momento

dell’esposizione della penna, dopo aver recitato solennemente il “Credo”, fece

accendere due grossi ceri e, toltosi il cappuccio, in segno di reverenza, cominciò lentamente a sviluppare il drappo di seta che avvolgeva la cassettina.

A questo punto disse alcune parole in lode dell’arcangelo Gabriele e della sua

reliquia, quindi aprì la cassetta. Quando la vide piena di carboni, non pensò affatto che ne fosse responsabile Guccio Balena, perché non riteneva che fosse abbastanza furbo per un’azione del genere e neppure lo maledisse, per non aver

impedito che altri la facesse, ma bestemmiò silenziosamente contro se stesso,

che aveva affidato le proprie cose a Guccio, conoscendolo negligente, disubbidiente, trascurato e smemorato. Tuttavia, senza cambiar colore, alzò la faccia e le mani al cielo e disse ad alta voce, in modo che tutti lo udissero:

 – O Dio, sempre sia lodata la tua potenza! –. 

Poi richiuse la cassetta e, rivolto ai fedeli, disse:

– Signori e donne, voi dovete sapere che, quando ero ancora molto giovane, iofui mandato dal mio superiore in quelle terre dove appare il sole e mi fu affidato l’incarico di cercare, finché non li trovassi, i privilegi del Porcellana, i quali, per quanto non costassero nulla di bollo, sono molto più utili agli altri che a noi. 

Per questa ragione, messomi in cammino, allontanandomi da Vinegia e andandomene per il Borgo dei Greci, quindi cavalcando per il Regno del Garbo e per Baldacca, giunsi in Parione dove, non senza soffrire la sete, dopo parecchio tempo giunsi in Sardegna. Ma perché vi vado enumerando tutti i paesi in cui sono capitato?

Io finii, passato il braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con popoli numerosi, e di lì pervenni nella terra di Menzogna, dove trovai molti dei nostri frati e di altri ordini religiosi, i quali andavano tutti tentando di evitare i disagi per amor di Dio, poco curandosi della fatica degli altri, se c’era la possibilità di guadagnarci.

Dopo giunsi alle montagne dei Baschi, dove tutte le acque scorrono verso il basso. 

In breve mi addentrai talmente nel territorio, che io arrivai fino in India Pastinaca, là dove, ve lo giuro per l’abito che porto addosso, io vidi volare i pennati, cosa incredibile per chi non l’avesse vista con i suoi occhi. 

Ma non potendo trovare ciò che cercavo, poiché da lì in avanti si può procedere solo per via d’acqua, tornandomene indietro, arrivai in quelle Sante Terre, dove durante l’estate il pane freddo vale quattro denari e il caldo si ha per niente. 

Qui trovai il venerabile padre Non-mi-blasmate-se-voi-piace, degnissimo patriarca di Gerusalemme, il quale, per riguardo all’abito di Sant’Antonio che io porto, volle che io vedessi tutte le sante reliquie, che egli aveva presso di sé. 

Ce n’erano tante che, se io anche volessi contarle, non ci riuscirei neppure in parecchie miglia; tuttavia, per non deludervi, ve ne elencherò alcune.

Egli mi mostrò in primo luogo il dito dello Spirito Santo, così fermo e così saldo,come non fu mai; 

poi un ciuffo di capelli del serafino che apparve a San Francesco; un’unghia dei cherubini;

 una delle costole del Verbum-caro-fatti-alle-finestre, alcuni abiti della santa Fede cattolica; 

molti raggi della stella che apparve ai tre Re Magi in oriente;

un’ampolla del sudore di San Michele, quando combatté col diavolo;

 la mascella di San Lazzaro;

 uno dei denti della Santa Croce;

 una ampolletta col suono delle campane del Tempio di Salomone;

 la penna   dell’arcangelo Gabriele, della quale vi ho parlato. 

Il patriarca mi diede anche dei carboni, con il quale fu arrostito il beatissimo martire San Lorenzo.

 Io mi sono portato tutte quelle reliquie in convento e le ho tenute tutte.

 È vero che il mio superiore non ha mai permesso di mostrarle prima di verificare se sono autentiche o no, ma grazie ad alcuni miracoli fatti da esse e ad alcune lettere ricevute dal patriarca, ora si è convinto della loro autenticità e mi ha dato licenza di mostrarle. 

Io, temendo di affidarle ad altri, le porto sempre con me.

 A dir la verità, io porto la penna dell’arcangelo Gabriele in una cassetta, affinché sia al riparo, e i carboni, con cui fu arrostito San Lorenzo, in un’altra, ma le due cassette sono così somiglianti, che spesso mi è successo di scambiarle, come è successo oggi: infatti io credevo di aver portato qui la cassetta con la penna, mentre ho portato quella con i carboni. 

Tuttavia io non credo che sia stato un errore, anzi, mi pare che sia stata la volontà di Dio e che Egli stesso mi abbia posto nelle mani la cassetta dei carboni, per ricordarmi che fra due giorni sarà la festa di San Lorenzo.

 Perciò Dio ha voluto che io, mostrandovi i carboni con cui il santo fu arrostito, ravvivi nelle vostre anime la devozione che dovete avere in lui.

Perciò voi, figli miei benedetti, toglietevi i cappucci e avvicinatevi devotamente a vedere i carboni. 

Prima, però, voglio che sappiate che chiunque sia toccato con un segno di croce da questi carboni, per tutto l’anno potrà essere sicuro che il fuoco non lo brucerà senza che lo senta.

Dopo che ebbe detto ciò, cantando una lode di San Lorenzo, aprì la cassetta e mostrò i carboni.

Dopo che la moltitudine di gonzi li ebbe contemplati a lungo con devozione, tutti si affollarono intorno a frate Cipolla, dando offerte più generose del consueto e scongiurandolo di toccarli con la reliquia.

Per questa ragione frate Cipolla, presi in mano i carboni, cominciò a tracciare le croci più grandi che riusciva a fare sopra i loro camicioni bianchi, i loro farsetti,i veli delle donne, affermando che quanto più si consumavano facendo quelle croci, tanto più ricrescevano poi nella cassetta, così come più volte aveva costatato.

In questo modo, oltretutto, ricevendo moltissime offerte per aver segnato con una croce di carbone tutti i certaldesi, con una pronta trovata riuscì a prendere in giro coloro che, sottraendogli la penna, avevano voluto beffarlo.

Costoro, presenti alla sua predica, dopo aver udito quale straordinario rimedio aveva trovato e come avesse preso il discorso alla lontana per cavarsi d’impiccio, avevano tanto riso da smascellarsi.

Dopo che la folla dei fedeli creduloni si fu allontanata, si avvicinarono a lui facendogli gran festa e gli rivelarono ciò che avevano fatto; quindi gli resero la sua penna, la quale l’anno seguente gli rese non meno di quanto, quel giorno, gli avevano reso i carboni.

Giovanni Boccaccio (Decameron) 

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