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Il signor Lantin, dopo che ebbe incontrato la giovane donna a una festa in
casa del suo capufficio, fu avvolto dall’amore come in una rete.
Era la figlia d’un esattore di provincia, morto da parecchi anni.
In seguito, era venuta a Parigi con sua madre, la quale cominciò a frequentare
alcune famiglie borghesi, con la speranza di trovar marito alla giovane.
Erano persone povere e onorate, tranquille e dolci. La ragazza sembrava il
prototipo della donna onesta alla quale il giovane ammodo sogna di affidar la sua
vita.
La sua modesta bellezza aveva il fascino d’un angelico pudore, e il lievissimo
sorriso che non lasciava mai le sue labbra sembrava un riflesso del cuore.
Tutti cantavano le sue lodi; coloro che la conoscevano non facevano altro che
dire: - Beato chi se la piglierà. Non si potrebbe fare una scelta migliore.
Lantin, il quale era allora archivista capo al ministero dell’Interno con lo
stipendio annuale di tremilacinquecento franchi, la chiese in moglie e la sposò.
Con lei fu straordinariamente felice.
Ella governò la casa con una economia tanto accorta che sembravano vivere nel
lusso. Non esistevano premure, delicatezze, moine, ch’ella non prodigasse a suo
marito; e tanta era la forza della sua seduzione che a sei anni dal loro incontro,
egli l’amava ancor più dei primi giorni.
Le rimproverava soltanto due abitudini, quella del teatro e quella dei gioielli
falsi.
Le sue amiche (conosceva alcune mogli di modesti funzionari) le procuravano
continuamente dei palchi per le commedie in voga, perfino per le prime
rappresentazioni; e di buona o di malavoglia si portava dietro il marito, che dopo
una giornata di lavoro si stancava tremendamente a simili passatempi.
La supplicò di andarci con qualche signora di sua conoscenza che dopo la
riaccompagnasse a casa.
Ella aspettò molto tempo prima di cedere, perché riteneva che far così fosse
sconveniente. Infine si decise, per fargli piacere, ed egli le fu assai grato.
Ben presto il gusto del teatro fece nascere in lei il bisogno di adornarsi.
I suoi abiti rimasero sempre semplici, di buon gusto, sì, ma modesti; e la sua
grazia dolce e irresistibile, umile e sorridente, pareva acquistar nuovo sapore
dalla semplicità dei suoi abiti; però prese l’abitudine di mettersi alle orecchie due
grosse pietre del Reno, che parevano diamanti, e di portare collane di perle false,
braccialetti di similoro, pettini adorni di varii vetruzzi, che volevano imitare le
pietre di valore.
Suo marito, un po’ seccato per quell’amore dei lustrini, ripeteva spesso: -
Cara, quando non si ha la possibilità di comprarsi i gioielli veri, ci si adorna
soltanto della propria bellezza e della propria grazia, che son sempre i gioielli più
rari.
Ella sorrideva con dolcezza rispondendo:
- Che vuoi farci? Mi piace. È il mio vizio. Lo so che hai ragione, ma non mi
posso mica riformare. Mi sarebbe tanto piaciuto avere dei gioielli!
E si faceva scorrere fra le dita le collane di perle, faceva scintillare le faccette
dei cristalli tagliati, dicendo: - Ma guarda, guarda com’è fatto bene. Si potrebbe
giurare che è vero.
Il marito sorridendo le rispondeva: - Hai dei gusti da zingara.
Qualche volta, la sera, quando stavano seduti tutti e due accanto al fuoco, la
donna portava sul tavolino dove prendevano il tè la scatola di marocchino nella
quale teneva chiusa la «paccottiglia», come la chiamava Lantin; e si metteva a
contemplare i gioielli finti con tanta appassionata attenzione che si sarebbe detto
che ne traesse un godimento segreto e profondo; per forza voleva mettere una
collana attorno al collo del marito, e poi rideva di cuore, esclamando: - Come sei
buffo! - e gli si gettava fra le braccia baciandolo con passione.
Una notte d’inverno rientrò dall’Opera tutta piena di brividi. L’indomani aveva
la tosse. Otto giorni dopo morì d’una flussione al petto.
Per poco Lantin non la seguì nella tomba.
La sua disperazione fu così tremenda che in un mese gli vennero i capelli bianchi.
Piangeva dalla mattina alla sera, con l’anima straziata da un dolore
insopportabile, perseguitato dal ricordo, dal sorriso, dalla voce, da tutte le
attrattive della morta.
Il tempo non placò il suo dolore. Spesso, in ufficio, mentre i suoi colleghi
facevano quattro chiacchiere sui fatti del giorno, all’improvviso gli si vedevano le
gote gonfiarsi, il naso raggrinzirsi, gli occhi empirsi di lacrime; faceva una
smorfia orrenda e cominciava a singhiozzare.
Aveva lasciato intatta la camera della sua compagna, e vi si chiudeva tutti i
giorni per pensare a lei; e tutti i mobili, i vestiti perfino, erano rimasti dove si
trovavano l’ultimo giorno.
Però la vita cominciava a farsi dura per lui. Il suo stipendio, che in mano alla
moglie bastava a tutti i bisogni della casa, ora non era sufficiente più neanche per
lui solo. Con stupore si chiedeva come lei aveva potuto destreggiarsi per riuscire
a fargli bere sempre vini squisiti e mangiare cibi delicati, che ora con le sue
modeste risorse non riusciva più a procurarsi.
Fece qualche debito, e corse dietro al denaro come tutta la gente ridotta a
vivere d’espedienti. Finalmente, una mattina, siccome era senza un soldo, e
mancava una settimana intera alla fine del mese, pensò di vendere qualcosa; e
gli venne subito in mente di disfarsi della «paccottiglia» di sua moglie, perché in
fondo al cuore gli era rimasto come un rancore verso quelle illusioni che prima lo
irritavano.
Perfino vederli, tutti i giorni, gli sciupava un poco il ricordo della sua diletta.
Cercò a lungo nel luccicante mucchietto che ella aveva lasciato, perché fino
agli ultimi giorni di vita aveva seguitato ostinatamente a comprare, portando una
cosa nuova quasi ogni sera; e si decise per la grande collana, che ella preferiva,
pensando che potesse valere sette o otto franchi perché, per essere falso, era un
lavoro fatto con molta cura.
Se la mise in tasca e si diresse verso il ministero passando dai boulevards e
cercando una gioielleria che gl’ispirasse fiducia.
Alla fine ne vide una ed entrò, vergognandosi un poco di mettere in mostra la
sua miseria nel cercare di vendere un oggetto di così scarso valore.
- Signore, - disse al negoziante, - vorrei sapere quanto stimate quest’oggetto.
L’uomo lo prese, lo esaminò, lo rigirò, lo soppesò, prese una lente, chiamò il
commesso e sottovoce gli fece osservare qualcosa, rimise la collana sul banco, e
la guardò da lontano per giudicarne meglio l’effetto.
Lantin era imbarazzato per tutte quelle cerimonie, e stava per dire: - Oh! ma lo
so che non ha nessun valore, - quando il gioielliere disse:
- Questa collana, signore, vale da dodici a quindicimila franchi; però non
posso comprarla se prima non mi direte la sua esatta provenienza.
Il vedovo spalancò gli occhi e restò a bocca aperta, senza capire.
Alla fine balbettò: - Dite che...? Siete sicuro?
- L’altro interpretò male il suo stupore e disse con tono asciutto:
- Potete andare da un altro a sentire se vi danno di più.
Per me vale al massimo quindicimila franchi. Tornate, se non trovate di meglio.
Lantin, completamente istupidito, si riprese la collana e uscì obbedendo a un
confuso bisogno di restare solo, e di pensare.
Ma appena fu per la strada gli venne voglia di ridere e pensò: «Che imbecille,
oh, che imbecille! Se però l’avessi preso in parola! Ecco un gioielliere che non è
neanche capace di distinguere la roba vera da quella falsa!».
Entrò in un’altra bottega, al principio di via della Pace.
L’orefice, appena ebbe visto il gioiello, esclamò:
- Perbacco, la conosco bene questa collana: proviene di qui.
Assai sconvolto Lantin chiese:
- Quanto vale?
- L’ho venduta per venticinquemila franchi, signore. Son disposto a
riprenderla per diciottomila se mi direte, in obbedienza alle disposizioni legali, in
quale modo ne siete venuto in possesso.
Lantin questa volta dovette sedersi, annientato dallo stupore.
- Ma guardatela bene, - disse, - io fino ad oggi avevo creduto che fosse... falsa.
Il gioielliere: - Volete dirmi come vi chiamate?
- Certo. Mi chiamo Lantin, sono impiegato al ministero dell’Interno, sto in via
dei Martiri, 16.
Il negoziante aprì il registro, cercò e poi disse:
- Questa collana difatti è stata mandata all’indirizzo della signora Lantin, in via
dei Martiri 16, il 20 luglio 1876.
I due uomini si guardarono negli occhi, l’impiegato smarrito per la sorpresa,
l’orefice credendo di aver di fronte un ladro.
- Volete lasciarmi la collana soltanto per ventiquattr’ore? - riprese
quest’ultimo, - vi faccio una ricevuta.
Lantin balbettò: - Sì, sì; certo.
E uscì piegando il foglietto e infilandoselo in tasca.
Attraversò la strada, la risalì, s’accorse che andava in una direzione sbagliata,
riscese alle Tuileries, varcò la Senna, s’accorse un’altra volta che sbagliava, tornò
ai Champs Elysées, senza avere in testa un’idea chiara.
Cercava di ragionare, di capire.
Sua moglie non aveva potuto comprare un oggetto di tanto valore.
No, di certo. Allora si trattava d’un regalo!
Un regalo! Un regalo di chi? Perché?
S’era fermato, immobile in mezzo al viale.
L’orrendo dubbio lo sfiorò. Lei?
Allora anche tutti gli altri gioielli erano dei regali!
Gli parve che la terra ondeggiasse; che un albero davanti a lui crollasse; stese le
braccia e cadde, privo di sensi.
Riprese conoscenza in una farmacia dove l’avevano portato a braccia alcuni
passanti. Si fece condurre a casa, e si rinchiuse dentro.
Pianse disperatamente fino a notte, mordendo un fazzoletto per non urlare.
Poi si coricò, affranto dalla fatica e dal dispiacere, e s’addormentò d’un sonno
pesante.
Lo svegliò un raggio di sole; lentamente s’alzò per andare al ministero.
Dopo un simile colpo era duro mettersi a lavorare.
Pensò che avrebbe potuto scusarsi col capufficio, e gli scrisse.
Poi gli venne in mente che doveva tornare dal gioielliere, e arrossì per la
vergogna. Rimase parecchio tempo a pensare.
In ogni caso non poteva lasciare la collana a quell’uomo, sicché si vestì e uscì.
Era bel tempo, il cielo azzurro si stendeva sulla città che pareva sorridere.
Alcune persone bighellonavano davanti a lui, con le mani in tasca.
Vedendole passare Lantin si disse: «Com’è felice chi ha soldi!
Col denaro ci si può liberare perfino dei dispiaceri, si va dove ci pare, si viaggia, ci si distrae. Oh!
se fossi ricco!».
S’accorse d’aver fame, perché era a digiuno dalla sera prima.
Ma aveva le tasche vuote, e allora pensò alla collana.
Diciottomila franchi! Diciottomila franchi erano una somma!
Raggiunse la via della Pace, e cominciò a passeggiare su e giù sul
marciapiede, di fronte al negozio. Diciottomila franchi!
Per venti volte fu sul punto d’entrare, trattenuto sempre dalla vergogna.
Però aveva fame e tanta, e non un centesimo in tasca. Si decise all’improvviso,
di corsa attraversò la strada per non darsi tempo di riflettere, e si precipitò nella
gioielleria.
Il negoziante appena lo vide accorse sollecito, e gli offrì una sedia sorridendo
con gentilezza.
Anche i commessi vennero, e guardavano in tralice Lantin, con gli
occhi e le labbra scoppiettanti dall’allegria.
Il gioielliere disse: - Mi sono informato, e se non avete cambiato idea son
pronto a pagarvi la somma che ho proposto.
- Certo, - balbettò l’impiegato.
L’orefice tirò fuori da un cassetto diciotto grandi biglietti, li contò, li porse a
Lantin, il quale firmò una ricevuta e con mano fremente si mise il denaro in
tasca.
Poi, mentre stava per uscire, si voltò verso il negoziante, il quale continuava a
sorridere, e disse chinando lo sguardo: - Ne avrei... ne avrei degli altri, di gioielli...
che mi vengono dalla stessa eredità. Sareste disposto a prenderli?
Il negoziante s’inchinò: - Certo, signore.
Uno dei commessi uscì, per ridere con comodo; un altro si soffiava
fragorosamente il naso.
Lantin, impassibile, rosso e serio, disse:
- Ora ve li porto.
E prese una carrozza per andare a prendere i gioielli.
Quando, un’ora dopo, tornò al negozio, non aveva ancora mangiato.
Cominciarono a esaminare i gioielli ad uno ad uno, stimandoli.
Provenivano quasi tutti da quella gioielleria.
Ora Lantin discuteva le valutazioni del negoziante, s’incolleriva, esigeva che gli
fossero mostrati i libri delle vendite, e via via che la somma aumentava, parlava
con voce sempre più alta.
I grandi orecchini valevano ventimila franchi; i braccialetti trentacinquemila;
gli spilli, gli anelli, e i medaglioni sedicimila; un finimento di smeraldi e zaffiri
quattordicimila; un solitario che, sospeso a una catena d’oro, formava una
collana, quarantamila; in tutto s’arrivava a cento novantaseimila franchi.
Il negoziante disse, con scherzosa bonomia: - Questa era una persona che spendeva
in gioielli tutti i suoi risparmi.
- È un modo come un altro di collocare il proprio denaro, - rispose gravemente
Lantin.
E se ne andò, dopo aver concordato col negoziante, per il giorno dopo, una
controperizia.
Appena fu in strada, guardò la colonna Vendôme con la voglia
d’arrampicarcisi, come se fosse stato l’albero della cuccagna. Si sentiva così
leggero che avrebbe saltato a piè pari la statua dell’Imperatore arrampicata lassù
in cielo.
Andò a mangiare da Voisin e bevve vino da venti franchi la bottiglia.
Dopo prese una carrozza e fece un giro nel parco.
Guardava le altre vetrine con un certo disprezzo, bramoso di gridare ai
passanti: - Anch’io son ricco. Possiedo duecentomila franchi.
Gli venne a mente il ministero. Vi si fece portare, entrò decisamente dal
capufficio e annunciò:
- Signore, vengo a dimettermi. Ho ereditato trecentomila franchi.
Andò a salutare i suoi ex colleghi, facendoli partecipi dei suoi progetti di
nuova vita, poi andò a mangiare al caffè Inglese.
Siccome accanto a lui c’era un signore di aspetto perbene, non poté resistere
alla smania di raccontargli, con una certa qual civetteria, che proprio allora aveva
ereditato quattrocentomila franchi.
Per la prima volta in vita sua non s’annoiò, al teatro, e passò la notte con
alcune ragazze allegre.
Si risposò dopo sei mesi. La sua seconda moglie era onestissima, ma con un
brutto carattere. Lo fece soffrire molto.
Guy de Maupassant
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Las joyas (Guy de Maupassant)
El señor Lantín la conoció en una reunión que hubo en casa del subjefe de su
oficina, y el amor lo envolvió como una red.
Era hija de un recaudador de contribuciones de provincia muerto años atrás, y
había ido a París con su madre, la cual frecuentaba a algunas familias burguesas
de su barrio, con la esperanza de casarla.
Dos mujeres pobres y honradas, amables y tranquilas. La muchacha parecía ser
el modelo de la mujer honesta, como la soñaría un joven prudente para confiarle
su porvenir. Su hermosura plácida ofrecía un encanto angelical de pudor, y la
imperceptible sonrisa, que no se borraba de sus labios, parecía un reflejo de su
alma.
Todo el mundo cantaba sus alabanzas; cuantos la conocieron repetían sin cesar:
“Dichoso el que se la lleve; no podría encontrar cosa mejor”.
Lantín, entonces oficial primero de negociado en el Ministerio del Interior, con tres
mil quinientos francos anuales de sueldo, la pidió por esposa y se casó con ella.
Fue verdaderamente feliz. Su mujer administraba la casa con tan prudente
economía, que aparentaba vivir hasta con lujo. Le prodigó a su marido todo
género de atenciones, delicadezas y mimos: era tan grande su encanto, que a los
seis años de haberla conocido, él la quería más aún que al principio.
Solamente le desagradaba que se aficionase con exceso al teatro y a las joyas falsas.
Sus amigas, algunas mujeres de modestos empleados, le regalaban con
frecuencia localidades para ver obras aplaudidas y hasta para algún estreno; y
ella compartía esas diversiones con su marido, al cual fatigaban horriblemente,
después de un día de trabajo. Por fin, para librarse de trasnochar, le rogó que
fuera con alguna señora conocida, que pudiese acompañarla cuando acabase la
función. Ella tardó mucho en ceder, juzgando inconveniente la proposición de su
marido; pero, al fin, se decidió a complacerlo, y él se alegró muchísimo.
Su afición al teatro despertó bien pronto en ella el deseo de adornarse.
Su atuendo era siempre muy sencillo, de buen gusto y modesto; su gracia
encantadora, su gracia irresistible, suave, sonriente, adquiría mayor atractivo con
la sencillez de sus trajes; pero cogió la costumbre de prender en sus orejas dos
trozos de vidrio, tallados como brillantes, y llevaba también collares de perlas
falsas, pulseras de oro falso y peinetas adornadas con cristales de colores, que
imitaban piedras finas.
Disgustado por aquella inconveniente afición al oropel, su marido le decía con
frecuencia:
-Cariño, la que no puede comprar joyas verdaderas no debe lucir más adornos
que la belleza y la gracia, que son las mejores joyas.
Pero ella, sonriendo dulcemente, contestaba:
-¿Qué quieres? Me gusta, es un vicio. Ya sé que tienes razón; pero no puedo
contenerme, no puedo. ¡Me gustan mucho las joyas!
Y hacía rodar entre sus dedos los collares de supuestas perlas; hacía brillar,
deslumbradores, los cristales tallados, mientras repetía:
-Observa qué bien hechos están; parecen finos.
Él sonreía diciendo:
-Tienes gustos de gitana.
Algunas veces, por la noche, mientras estaban solos junto a la chimenea, sobre la
mesita donde tomaban el té, colocaba ella la caja de tafilete donde guardaba la
“pacotilla”, según la expresión de Lantín, y examinaba las joyas con atención,
apasionándose como si gozase un placer secreto y profundo. Se obstinaba en
ponerle un collar a su marido para echarse a reír y exclamar:
-¡Qué mono estás!
Luego, arrojándose en sus brazos, lo besaba locamente.
Una noche de invierno, al salir de la Ópera, ella sintió un estremecimiento de frío.
Por la mañana tuvo tos; y ocho días más tarde murió, de una pulmonía. Lantín
se entristeció de tal modo, que por poco lo entierran también. Su desesperación
fue tan grande que sus cabellos encanecieron por completo en un mes.
Lloraba día y noche, con el alma desgarrada por un dolor intolerable, acosado por
los recuerdos, por la voz, por la sonrisa, por el perdido encanto de su muerta.
El tiempo no calmaba su amargura. Muchas veces, en las horas de oficina,
mientras sus compañeros se agrupaban para comentar los sucesos del día, se le
llenaban de agua los ojos y, haciendo una mueca triste, comenzaba a sollozar.
Había mantenido intacta la habitación de su compañera, y se encerraba allí,
diariamente, para pensar; todos los muebles, y hasta sus trajes, continuaban en
el mismo lugar, como ella los había dejado.
Pero la vida se le hizo dificultosa. El sueldo, que manejado por su mujer bastaba
para todas las necesidades de la casa, era insuficiente para él solo, y se
preguntaba con estupor cómo se las había arreglado ella para darle vinos
excelentes y manjares delicados, que ya no era posible adquirir con sus
modestos recursos.
Contrajo algunas deudas y, al fin, una mañana, ocho días antes de acabar el mes,
faltándole dinero para todo, pensó vender algo. Y acaso por ser lo que le había
producido algún disgusto, decidió desprenderse de la “pacotilla”, a la que le
guardaba aún cierto rencor, porque su vista le amargaba un poco el recuerdo de
su mujer.
Rebuscó entre las muchas joyas de su esposa -la cual hasta los últimos días de su
vida estuvo comprando, adquiriendo casi cada tarde una joya nueva-, y por fin se
decidió por un hermoso collar de perlas que podía valer muy bien -a juicio de
Lantín- dieciséis o diecisiete francos, pues era muy primoroso, a pesar de ser
falso.
Se lo metió en el bolsillo y, de camino para el Ministerio, siguiendo los bulevares,
buscó una joyería cualquiera.
Entró en una, bastante avergonzado de mostrar así su miseria, yendo a vender
una cosa de tan poco precio.
-Caballero -le dijo al comerciante-, quisiera saber lo que puede valer esto.
El joven tomó el collar, lo examinó, le dio vueltas, lo tanteó, cogió una lente,
llamó a otro dependiente, le hizo algunas indicaciones en voz baja, puso la joya
sobre el mostrador y la miró de lejos, para observar el efecto.
Lantín, molesto por aquellas prevenciones, se disponía a exclamar: “¡Oh, ya sé
que no vale nada!”, cuando el comerciante dijo:
-Caballero, esto vale de doce a quince mil francos; pero no puedo adquirirlo sin conocer su procedencia.
El viudo abrió unos ojos enormes y se quedó con la boca abierta. Por fin, balbució:
-¿Está usted seguro?…
El otro, atribuyendo a otra causa la sorpresa, añadió secamente:
-Puede ver si alguien se lo paga mejor; para mí, vale sólo quince mil francos.
Lantín, completamente idiota, recogió el collar y se fue, obedeciendo a un deseo
confuso de reflexionar a solas.
Pero, en cuanto se vio en la calle, estuvo a punto de soltar la risa, pensando:
“¡Imbécil! ¡Imbécil! Si le hubiese cogido la palabra… ¡Vaya un joyero, que no
sabe distinguir lo bueno de lo falso!”
Y entró en otra joyería de la calle de la Paz. En cuanto vio la joya, el comerciante
dijo:
-¡Ah, caramba! Conozco muy bien este collar; ha salido de esta casa.
Lantín, desconcertado, preguntó:
-¿Cuánto vale?
-Caballero, yo lo vendí en veinticinco mil francos y se lo compraré en dieciocho
mil, cuando me indique, para cumplir las prescripciones legales.
¿Cómo ha llegado a su poder?
Esta vez el señor Lantín tuvo que sentarse, anonadado por la sorpresa:
-Examínelo… examínelo usted detenidamente, ¿no es falso?
-¿Quiere usted darme su nombre, caballero?
-Sí, señor; me llamo Lantín, estoy empleado en el Ministerio del Interior y vivo en
la calle de los Mártires, en el número 16.
El comerciante abrió sus libros, buscó y dijo:
-Este collar fue enviado, en efecto, a la señora de Lantín, calle de los Mártires,
número 16, en julio de 1878.
Los dos hombres se miraron fijamente; el empleado, estúpido por la sorpresa; el
joyero, creyendo estar ante un ladrón.
El comerciante dijo:
-¿Accede a depositar esta joya en mi casa durante veinticuatro horas nada más,
mediante recibo?
Lantín balbució:
-Si, sí; ya lo creo.
Y salió doblando el papel, que guardó en un bolsillo.
Luego cruzó la calle, anduvo hasta notar que había equivocado su camino, volvió
hacia las Tullerías, pasó el Sena, vio que se equivocaba de nuevo, y retrocedió
hasta los Campos Elíseos, sin ninguna idea clara en la mente.
Se esforzaba, queriendo razonar, comprender. Su esposa no pudo adquirir un
objeto de tanto valor… De ningún modo… Luego ¡era un regalo! ¡Un regalo!
Y ¿de quién? ¿Por qué?
Se detuvo y quedó inmóvil en medio del paseo. La horrible duda lo asaltó.
¿Ella?…
¡Y todas las demás joyas también serían regalos!
Le pareció que la tierra temblaba, que un árbol se le venía encima y, tendiendo
los brazos, se desplomó.
Recobró el sentido en una farmacia adonde los transeúntes que lo recogieron lo
habían llevado. Hizo que lo condujeran a su casa y no quiso ver a nadie.
Hasta la noche lloró desesperadamente, mordiendo un pañuelo para no gritar.
Luego se fue a la cama, rendido por la fatiga y la tristeza, y durmió con sueño
pesado.
Lo despertó un rayo de sol, y se levantó despacio, para ir a la oficina.
Era muy duro trabajar después de semejantes emociones.
Recordó que podía excusarse con su jefe, y le envió una carta.
Luego pensó que debía ir a la joyería y lo ruborizó la vergüenza. Se quedó largo
rato meditabundo; no era posible que se quedara el collar sin recoger. Se vistió y
salió.
Hacía buen tiempo; el cielo azul, alegrando la ciudad, parecía sonreír.
Dos transeúntes ociosos andaban sin rumbo, lentamente, con las manos en los
bolsillos.
Lantín pensó, al verlos: “Dichoso el que tiene una fortuna.
Con el dinero pueden acabarse todas las tristezas; uno va donde quiere, viaja, se
distrae… ¡Oh!
¡Si yo fuese rico!”
Sintió hambre, no había comido desde la antevíspera.
Pero no llevaba dinero, y volvió a ocuparse del collar ¡Dieciocho mil francos!
¡Era un buen tesoro!
Llegó a la calle de la Paz y comenzó a pasearse para arriba y para abajo, por la
acera frente a la joyería. ¡Dieciocho mil francos! Veinte veces fue a entrar; y
siempre se detenía, avergonzado.
Pero tenía hambre, un hambre atroz, y ningún dinero. Por fin se decidió,
bruscamente; atravesó la calle y, corriendo, para no darse tiempo de reflexionar,
se precipitó en la joyería. El dueño se apresuró a ofrecerle una silla, sonriendo
con finura. Los dependientes miraban a Lantín de reojo, procurando contener la
risa que les retozaba en el cuerpo. El joyero dijo:
-Caballero, ya me informé. Si usted acepta mi proposición, puedo entregarle
ahora mismo el precio de la joya.
El empleado balbució:
-Sí, sí; claro.
El comerciante sacó de un cajón dieciocho billetes de mil francos y se los entregó
a Lantín, quien firmó un recibo y los guardó en el bolsillo con mano temblorosa.
Cuando ya se iba, se volvió hacia el joyero, que sonreía, y le dijo, bajando los ojos:
-Tengo… aún… otras joyas que han llegado hasta mí por el mismo conducto, ¿le
convendría comprármelas?
El comerciante respondió:
-Sin duda, caballero.
Uno de los dependientes se vio obligado a salir de la tienda para soltar la
carcajada; otro se sonó con fuerza; pero Lantín, impasible, colorado y grave,
prosiguió:
-Voy a traérselas.
Y cogió un coche para ir a buscar las joyas.
Al volver a la joyería, una hora después, no se había desayunado aún.
Comenzaron a examinar los objetos, pieza por pieza, tasándolos uno a uno.
Casi todos eran de la misma casa.
Lantín discutía ya los precios, enfadándose, y exigía que le mostraran los
comprobantes de las facturas, hablando cada vez más recio, a medida que la
suma aumentaba.
Los dos solitarios valían veinticinco mil francos; los broches, sortijas y
medallones, dieciséis mil; un aderezo de esmeraldas y zafiros, catorce mil; las
pulseras, treinta y cinco mil; un solitario, colgante de una cadena de oro,
cuarenta mil; y ascendía todo a ciento noventa y seis mil francos.
El comerciante dijo con sorna:
-Esto es de una persona que debió de emplear sus economías en joyas.
Lantín repuso, gravemente:
-Cada cual emplea sus ahorros a su gusto.
Y se fue, habiendo convenido con el joyero que, al día siguiente, comprobarían la tasación.
Cuando estuvo en la calle, miró la columna Vendóme, y sintió deseos de gatear
por ella como si le pareciese una cucaña. Se sentía ligero, con ánimo para saltar
por encima de la estatua del emperador, puesta en lo alto.
Almorzó en el restaurante más lujoso y bebió vino de a veinte francos la botella.
Después tomó un coche para que lo llevase al bosque, y miraba
despreciativamente a los transeúntes, con ganas de gritar: “¡Soy rico!
¡Tengo doscientos mil francos!”
Se acordó de su oficina y se hizo conducir al Ministerio.
Entró en el despacho de su jefe y le dijo con desenvoltura:
-Vengo a presentar mi dimisión, porque acabo de recibir una herencia de
trescientos mil francos.
Luego fue a estrechar la mano de sus compañeros, y les dio cuenta de sus nuevos
planes de vida.
Por la noche comió en el café Inglés, el más caro.
Viendo junto a él a un caballero, que le pareció distinguido, no pudo resistir la
tentación de referirle, con mucha complacencia, que acababa de heredar
cuatrocientos mil francos.
Por primera vez en su vida, no se aburrió en el teatro y pasó toda la noche con
mujeres.
Se volvió a casar al medio año. La segunda mujer -verdaderamente honrada-
tenía un carácter insoportable y lo hizo sufrir mucho.
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The Jewels
Monsieur Lantin had met the young girl at a reception at the house of the second
head of his department, and had fallen head over heels in love with her.
She was the daughter of a provincial tax collector, who had been dead several
years.
She and her mother came to live in Paris, where the latter, who made the
acquaintance of some of the families in her neighborhood, hoped to find a
husband for her daughter.
They had very moderate means, and were honorable, gentle, and quiet.
The young girl was a perfect type of the virtuous woman in whose hands every
sensible young man dreams of one day intrusting his happiness. Her simple
beauty had the charm of angelic modesty, and the imperceptible smile which
constantly hovered about the lips seemed to be the reflection of a pure and
lovely soul. Her praises resounded on every side. People never tired of repeating:
"Happy the man who wins her love! He could not find a better wife."
Monsieur Lantin, then chief clerk in the Department of the Interior, enjoyed a
snug little salary of three thousand five hundred francs, and he proposed to this
model young girl, and was accepted.
He was unspeakably happy with her. She governed his household with such clever
economy that they seemed to live in luxury. She lavished the most delicate
attentions on her husband, coaxed and fondled him; and so great was her charm
that six years after their marriage, Monsieur Lantin discovered that he loved his
wife even more than during the first days of their honeymoon.
He found fault with only two of her tastes: Her love for the theatre, and her taste
for imitation jewelry. Her friends (the wives of some petty officials) frequently
procured for her a box at the theatre, often for the first representations of the
new plays; and her husband was obliged to accompany her, whether he wished it
or not, to these entertainments which bored him excessively after his day's work
at the office.
After a time, Monsieur Lantin begged his wife to request some lady of her
acquaintance to accompany her, and to bring her home after the theatre.
She opposed this arrangement, at first; but, after much persuasion, finally
consented, to the infinite delight of her husband.
Now, with her love for the theatre, came also the desire for ornaments.
Her costumes remained as before, simple, in good taste, and always modest; but
she soon began to adorn her ears with huge rhinestones, which glittered and
sparkled like real diamonds. Around her neck she wore strings of false pearls, on
her arms bracelets of imitation gold, and combs set with glass jewels.
Her husband frequently remonstrated with her, saying:
"My dear, as you cannot afford to buy real jewelry, you ought to appear adorned
with your beauty and modesty alone, which are the rarest ornaments of your
sex."
But she would smile sweetly, and say:
"What can I do? I am so fond of jewelry. It is my only weakness.
We cannot change our nature."
Then she would wind the pearl necklace round her fingers, make the facets of the
crystal gems sparkle, and say:
"Look! are they not lovely? One would swear they were real."
Monsieur Lantin would then answer, smilingly:
"You have bohemian tastes, my dear."
Sometimes, of an evening, when they were enjoying a tete-a-tote by the fireside,
she would place on the tea table the morocco leather box containing the "trash,"
as Monsieur Lantin called it. She would examine the false gems with a passionate
attention, as though they imparted some deep and secret joy; and she often
persisted in passing a necklace around her husband's neck, and, laughing
heartily, would exclaim: "How droll you look!" Then she would throw herself into
his arms, and kiss him affectionately.
One evening, in winter, she had been to the opera, and returned home chilled
through and through. The next morning she coughed, and eight days later she
died of inflammation of the lungs.
Monsieur Lantin's despair was so great that his hair became white in one month.
He wept unceasingly; his heart was broken as he remembered her smile, her
voice, every charm of his dead wife.
Time did not assuage his grief. Often, during office hours, while his colleagues
were discussing the topics of the day, his eyes would suddenly fill with tears, and
he would give vent to his grief in heartrending sobs. Everything in his wife's
room remained as it was during her lifetime; all her furniture, even her clothing,
being left as it was on the day of her death. Here he was wont to seclude himself
daily and think of her who had been his treasure-the joy of his existence.
But life soon became a struggle. His income, which, in the hands of his wife,
covered all household expenses, was now no longer sufficient for his own
immediate wants; and he wondered how she could have managed to buy such
excellent wine and the rare delicacies which he could no longer procure with his
modest resources.
He incurred some debts, and was soon reduced to absolute poverty.
One morning, finding himself without a cent in his pocket, he resolved to sell
something, and immediately the thought occurred to him of disposing of his
wife's paste jewels, for he cherished in his heart a sort of rancor against these
"deceptions," which had always irritated him in the past.
The very sight of them spoiled, somewhat, the memory of his lost darling.
To the last days of her life she had continued to make purchases, bringing home
new gems almost every evening, and he turned them over some time before
finally deciding to sell the heavy necklace, which she seemed to prefer, and
which, he thought, ought to be worth about six or seven francs; for it was of very
fine workmanship, though only imitation.
He put it in his pocket, and started out in search of what seemed a reliable
jeweler's shop. At length he found one, and went in, feeling a little ashamed to
expose his misery, and also to offer such a worthless article for sale.
"Sir," said he to the merchant, "I would like to know what this is worth."
The man took the necklace, examined it, called his clerk, and made some
remarks in an undertone; he then put the ornament back on the counter, and
looked at it from a distance to judge of the effect.
Monsieur Lantin, annoyed at all these ceremonies, was on the point of saying:
"Oh! I know well 'enough it is not worth anything," when the jeweler said: "Sir,
that necklace is worth from twelve to fifteen thousand francs; but I could not buy
it, unless you can tell me exactly where it came from."
The widower opened his eyes wide and remained gaping, not comprehending the
merchant's meaning. Finally he stammered: "You say--are you sure?" The other
replied, drily: "You can try elsewhere and see if any one will offer you more.
I consider it worth fifteen thousand at the most. Come back; here, if you cannot
do better."
Monsieur Lantin, beside himself with astonishment, took up the necklace and left
the store. He wished time for reflection.
Once outside, he felt inclined to laugh, and said to himself: "The fool! Oh, the
fool! Had I only taken him at his word! That jeweler cannot distinguish real
diamonds from the imitation article."
A few minutes after, he entered another store, in the Rue de la Paix.
As soon as the proprietor glanced at the necklace, he cried out:
"Ah, parbleu! I know it well; it was bought here."
Monsieur Lantin, greatly disturbed, asked:
"How much is it worth?"
"Well, I sold it for twenty thousand francs. I am willing to take it back for eighteen
thousand, when you inform me, according to our legal formality, how it came to
be in your possession."
This time, Monsieur Lantin was dumfounded. He replied:
"But--but--examine it well. Until this moment I was under the impression that it
was imitation."
The jeweler asked:
"What is your name, sir?"
"Lantin--I am in the employ of the Minister of the Interior. I live at number
sixteen Rue des Martyrs."
The merchant looked through his books, found the entry, and said: "That necklace
was sent to Madame Lantin's address, sixteen Rue des Martyrs, July 20, 1876."
The two men looked into each other's eyes--the widower speechless with
astonishment; the jeweler scenting a thief. The latter broke the silence.
"Will you leave this necklace here for twenty-four hours?" said he; "I will give you
a receipt."
Monsieur Lantin answered hastily: "Yes, certainly."
Then, putting the ticket in his pocket, he left the store.
He wandered aimlessly through the streets, his mind in a state of dreadful
confusion. He tried to reason, to understand. His wife could not afford to
purchase such a costly ornament. Certainly not.
But, then, it must have been a present!--a present!--a present, from whom?
Why was it given her?
He stopped, and remained standing in the middle of the street.
A horrible doubt entered his mind--She? Then, all the other jewels must have
been presents, too! The earth seemed to tremble beneath him--the tree before
him to be falling; he threw up his arms, and fell to the ground, unconscious.
He recovered his senses in a pharmacy, into which the passers-by had borne him.
He asked to be taken home, and, when he reached the house, he shut himself up
in his room, and wept until nightfall.
Finally, overcome with fatigue, he went to bed and fell into a heavy sleep.
The sun awoke him next morning, and he began to dress slowly to go to the
office. It was hard to work after such shocks. He sent a letter to his employer,
requesting to be excused. Then he remembered that he had to return to the
jeweler's. He did not like the idea; but he could not leave the necklace with that
man.
He dressed and went out.
It was a lovely day; a clear, blue sky smiled on the busy city below.
Men of leisure were strolling about with their hands in their pockets.
Monsieur Lantin, observing them, said to himself: "The rich, indeed, are happy.
With money it is possible to forget even the deepest sorrow. One can go where
one pleases, and in travel find that distraction which is the surest cure for grief.
Oh if I were only rich!"
He perceived that he was hungry, but his pocket was empty.
He again remembered the necklace. Eighteen thousand francs! Eighteen thousand
francs! What a sum!
He soon arrived in the Rue de la Paix, opposite the jeweler's.
Eighteen thousand francs! Twenty times he resolved to go in, but shame kept him
back. He was hungry, however--very hungry--and not a cent in his pocket.
He decided quickly, ran across the street, in order not to have time for reflection,
and rushed into the store.
The proprietor immediately came forward, and politely offered him a chair; the
clerks glanced at him knowingly.
"I have made inquiries, Monsieur Lantin," said the jeweler, "and if you are still
resolved to dispose of the gems, I am ready to pay you the price I offered."
"Certainly, sir," stammered Monsieur Lantin.
Whereupon the proprietor took from a drawer eighteen large bills, counted, and
handed them to Monsieur Lantin, who signed a receipt; and, with trembling
hand, put the money into his pocket.
As he was about to leave the store, he turned toward the merchant, who still wore the same knowing smile, and lowering his eyes, said:
"I have--I have other gems, which came from the same source.
Will you buy them, also?"
The merchant bowed: "Certainly, sir."
Monsieur Lantin said gravely: "I will bring them to you." An hour later, he
returned with the gems.
The large diamond earrings were worth twenty thousand francs; the bracelets,
thirty-five thousand; the rings, sixteen thousand; a set of emeralds and
sapphires, fourteen thousand; a gold chain with solitaire pendant, forty
thousand--making the sum of one hundred and forty-three thousand francs.
The jeweler remarked, jokingly:
"There was a person who invested all her savings in precious stones."
Monsieur Lantin replied, seriously:
"It is only another way of investing one's money."
That day he lunched at Voisin's, and drank wine worth twenty francs a bottle.
Then he hired a carriage and made a tour of the Bois. He gazed at the various
turnouts with a kind of disdain, and could hardly refrain from crying out to the
occupants:
"I, too, am rich!--I am worth two hundred thousand francs."
Suddenly he thought of his employer. He drove up to the bureau, and entered
gaily, saying:
"Sir, I have come to resign my position. I have just inherited three hundred
thousand francs."
He shook hands with his former colleagues, and confided to them some of his
projects for the future; he then went off to dine at the Cafe Anglais.
He seated himself beside a gentleman of aristocratic bearing; and, during the
meal, informed the latter confidentially that he had just inherited a fortune of
four hundred thousand francs.
For the first time in his life, he was not bored at the theatre, and spent the
remainder of the night in a gay frolic.
Six months afterward, he married again. His second wife was a very virtuous
woman; but had a violent temper. She caused him much sorrow.
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