venerdì 22 ottobre 2021

No man’s land

 Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale 

padrone di sé stesso. 

C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. 

Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra immorale, o, dal punto di vista  della polizia, l’una lecita e l’altra illecita. 

Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in  compagnia di qualcuno, anche soltanto un’ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese;vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità.

Queste ore possono aggiungere qualcosa alla vita visibile dell’uomo oppure avere un loro significato del tutto autonomo; possono essere felicità, necessità, abitudine, ma sono comunque sempre indispensabili per raddrizzare la “linea generale” dell’esistenza. 

Se un uomo non usufruisce di questo suo diritto o ne viene privato da circostanze esterne, un bel giorno scoprirà con stupore che nella vita non s’è  mai incontrato con sé stesso, e c’è qualcosa di malinconico in questo pensiero. 

Mi fanno pena le persone che sono sole unicamente nella stanza da bagno, e in nessun altro tempo e luogo.

L’inquisizione oppure lo stato totalitario, sia detto per inciso, non possono assolutamente tollerare questa seconda vita che sfugge a qualunque tipo di controllo, e sanno quello che fanno quando organizzano la vita dell’uomo impedendogli ogni solitudine, eccetto quella della stanza da bagno.

Nelle caserme e nelle prigioni, del resto, spesso non c’è neanche questa solitudine.

In questa no man’s land, dove l’uomo vive nella libertà e nel mistero, possono accadere strane cose, si possono incontrare altri esseri simili, si può leggere e capire un libro con particolare intensità, o ascoltare musica in modo anch’esso inconsueto, oppure nel silenzio e

nella solitudine può nascere il pensiero che in seguito ti cambierà la vita, che porterà alla rovina o alla salvezza. 

Forse in questa no man’s land gli uomini piangono, o bevono, o ricordano cose che nessuno conosce, o osservano

 i propri piedi scalzi, o provano una nuova scriminatura sulla testa calva, oppure sfogliano una rivista illustrata con

 immagini di belle donne seminude e muscolosi lottatori — non lo so, e non lo voglio sapere. 

Da bambini e persino da giovani (come probabilmente anche da vecchi) non sempre avvertiamo il bisogno di quest’altra vita

Ma non bisogna credere che quest’altra vita, questa no man’s land, sia la festa e tutto il resto i giorni feriali. 

Non per questa via passa la distinzione: solo per quella del mistero assoluto e della libertà assoluta.

Il mio incontro con Ejnar aveva avuto luogo nella no man's land. 

Poi era successo quello che talvolta succede: la seconda vita era cresciuta e aveva cominciato a mettere in ombra la prima. 

Allora eravamo a quello stadio dell'amore in cui non si riesce a pensare a nient'altro. 

Ed entrambi sapevamo cosa sono il segreto assoluto e la libertà assoluta. 

Ne avevamo parlato già all'inizio della nostra storia, avevamo ricordato 

il precetto: "onora il giorno del sabato; per sei giorni  lavorerai e farai ogni opera tua; ma il settimo  giorno 

è sabato... prendilo a te stesso per te; e ognuno di noi due aveva questo "sabato" (lo stesso per entrambi), e per distinguerci dagli altri lo chiamavamo scherzando "martedì". "Diritto al martedì" dicevamo allora. E come lottano gli uomini per avere il loro "martedì"!

 Che per decreto il "martedì" sia concesso a tutti, tutti, tutti! E ridendo dicevamo l'uno all'altro: sei tu il mio "martedì",

 finchè un giorno non ci eravamo accorti che tutta la settimana era diventata un "martedì".

Adesso la mia no man’s land era come prima popolata daipensieri su Ejnar. 

Tutto si riduceva a tre domande: è vivo?

lo rivedrò un giorno? mi ama ancora?

 Tentavo di impedire a questi pensieri di demolire le basi della mia vita – il lavoro,i rapporti con le altre persone, spesso per nulla semplici – e in questa lotta si esaurivano tutte le mie forze spirituali.

 Ma dentro di me, entro i confini della mia seconda vita, quelle ore di ansia, di disperazione, di speranze, restavano la mia proprietà segreta. 

Come sempre, ero l’unica e totale padrona della mia no man’s land.

I due giovani si separano e trascorrono  diversi anni senza che nessuno abbia notizie dell'altro.

Si ritrovano a Stoccolma,città d'origine di Ejnar,dove la protagonista si é recata per motivi editoriali,ma Ejnar è sposato con Emma.

Questa tuttavia,non mostra alcun imbarazzo e offre ospitalità all'ex fidanzata del marito.

Quando tutti presero posto, e prima che il maître portasse il menu, io non solo vidi Ejnar a due passi da me, ma in modo del tutto naturale incontrai i suoi occhi. 

Senza staccare da me lo sguardo,cominciò ad alzarsi dalla sedia, lentamente, con in mano il tovagliolo e la bocca stirata in un sorriso innaturale e sgradevole che non gli avevo mai visto; poi lasciò cadere il

tovagliolo sulla sedia e venne verso di me, e in quel momento capii che era riuscito a dominarsi: il viso leggermente invecchiato esprimeva ciò che lui voleva, si sforzava di esprimere: la piacevole sorpresa di incontrare una vecchia amica. 

Il suo viso era tornato quello di un tempo.

 Tutti, al suo tavolo, si erano zittiti, e in quegli attimi mi parve che anche intorno a me fosse sceso all’improvviso il silenzio. 

E in quel silenzio mi vidi dall’esterno – mi capita molto di rado e non mi piace, di solito dura qualche secondo, ma la sensazione è angosciante: eccomi seduta con un vestito nuovo, la borsetta nuova è posata accanto alpiatto, il parrucchiere mi ha tagliato i capelli neri e li ha pettinati all’indietro lasciando scoperte fronte e orecchie,ho un nuovo profumo, posso sentirlo; la mia mano sinistra è appoggiata sulla tovaglia, la destra sfiora il bicchiere, vedol’anello col topazio.

 «Adesso sorriderà e si metterà a parlare» penso di me stessa, e mi sforzo di porre fine aquesto sdoppiamento.

 Finisce da solo.

I compagni di tavolo di Ejnar – una signora molto robusta, molto alta, e un uomo – si voltarono verso di me. La vidi, ed ebbi modo di vederla ancora meglio quando entrambe ci alzammo e, incontrandoci a metà strada tra i tavoli, ci salutammo in tono disinvolto e allegro. 

Sorpresa,esclamazioni: Olners conosceva benissimo Ejnar, ma non lo vedeva da molto tempo (e cioè da un paio di mesi, credo).

Dopo qualche attimo di confusione e di agitazione generale vennero spostate le sedie, accostati i tavoli, e tutti

tornarono a sedersi tra sorrisi e strette di mano; la conversazione riprese in un francese stentato, ci furono vari brindisi: a me, alla Russia, alla Francia, al futuro libro su Dmitrij Georgevič, che Olners paragonò a Mendeleev in un discorso breve ma assai ben improvvisato.

La moglie di Ejnar era una gigantessa dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, con un tondo viso da bambola, grandi

guance tonde leggermente gonfie che ricordavano un angelo paffuto, o addirittura un angelo che soffia nella tromba.Un misto di Rubens e Bellini. 

Si muoveva lentamente, come si conviene a una donna più alta non solo delle altre donne, ma anche di molti degli uomini presenti.

Mi osservò per qualche istante e poi, senza la minima ombra d’imbarazzo, disse a voce alta:

«Ejnar, perché mi hai detto che somigliava a una cinese? Non ha assolutamente nulla di cinese!».

Non partii il giorno seguente, ma solo quattro giorni dopo. 

Passai quattro sere a casa loro, e di giorno io ed Emma andavamo in giro per la città; andammo anche a

Skansen per vedere la tomba di Strindberg, l’enorme crocedi legno con l’iscrizione dorata. 

Una volta, verso sera,finimmo addirittura al Tivoli, dove giocammo a tiro a segno e a biliardo, e guardammo i mostri.

 Mi confessò che aveva mandato indietro tutt’e due le mie lettere; non voleva che Ejnar riprendesse a scrivermi: era

così felice con lei, e da quando l’aveva incontrata non conosceva più tempeste spirituali. 

Di comune accordo avevano entrambi cercato di costruire la propria vita nell’armonia e nell’amore,

«accettiamo l’autunno come la primavera,» così si espresse Emma «come ogni cosa della natura, entrambi amiamo il tempo sereno, l’arcobaleno nel cielo». 

Erano sposati già da cinque anni, e non pensate, mi disse tenendo in mano un pasticcino, che impantanati nella 

nostra felicità familiare ragionevolmente costruita non ricordiamo mai gli amici di un tempo: io stessa in Italia ho delle persone molto, molto intime, delle persone care, amici della mia innocente gioventù (lo disse con assoluta serietà), e in tutti questi anni di guerra Ejnar e io ci siamo tanto preoccupati, addolorati... le privazioni, soprattutto, e i bombardamenti...

Qui da noi invece tutto era come sempre; certo, in primavera l’uva non si trovava, ma è forse importante?

Ditemi, m’interessa saperlo, per voi è importante che in primavera manchi l’uva?

La sera andavo da loro e ce ne stavamo – Emma, Ejnar, il dottor Mattis e io – in una stanza ben riscaldata,sprofondati in basse poltrone. 

Più di tutti parlavo io: di quegli anni, di Dmitrij Georgevič e del camino freddo davanti al quale restava spesso seduto

 negli ultimi tempi –e qui nel camino bruciavano grossi ciocchi di betulla, così secchi che prendevano fuoco con un

 solo fiammifero –,delle quattro visite, dei libri bruciati per errore, delle nostre letture serali a voce alta, a lume di candela, del fatto

che mancavano i grassi e spesso l’inverno avevamo molto freddo, dell’importante ruolo che hanno la lana e il lardo nella vita dell’uomo. 

Poi mi ero ripresa, d’un tratto avevo capito che non bisognava entrare in simili dettagli, che era

meglio raccontare loro del dottor Wengland, e della conversazione avvenuta nello studio di Dmitrij Georgevič a porte chiuse.

 Lo aveva denunciato lui, o no? – per me restava un enigma. «Certo che lo denunciò» disse fermamente Emma.

 E il dottor Mattis: «Forse si lasciò solo scappare qualche parola di troppo», e intanto Ejnar fumava in silenzio. 

Io continuavo a parlare, e loro ascoltavano, e raccontai della strofantina, e dissi che Dmitrij Georgevič avrebbe potuto vivere più a lungo, e forse anche vedere lafine della guerra, se io avessi messo la strofantina nella valigia. «No, assolutamente!» disse Emma.

 «Assai improbabile» disse il dottor Mattis. 

A notte tarda cenammo con pollo freddo, vino bianco e fragole fresche, che in quella stagione erano ancora più rare dell’uva in primavera. 

E tutto questo era possibile perché il mio primo giorno a Stoccolma, vicino a un ascensore, avevo preso la decisione di non vedere mai più Ejnar.

Per tutti quei quattro giorni Emma non mi lasciò mai sola con Ejnar né lui mi telefonò; e benché, malgrado la decisione presa, io aspettassi il permesso di Emma, non lo ottenni. 

Vennero tutti e tre ad accompagnarmi alla stazione; io ed Emma passeggiammo lungo il marciapiede

mentre il dottor Mattis ed Ejnar andavano a controllare sesul mio treno viaggiava un certo Gustavson, che quel giorno, pare, doveva andare ad Anversa. 

Emma e io camminavamo lungo il marciapiede e dicevamo che magari l’anno dopo, o al massimo tra due anni, si poteva andare in

Italia, e fermarsi un po’ a Firenze, a Venezia. 

Mi guardava fisso, come misurandomi, come facendo non so quali calcoli e riflessioni in cuor suo, e trovò anche il tempo di dirmi che

le ero piaciuta «terribilmente», che non si aspettava che fossi tanto simpatica, allegra e non so cos’altro, e io sentivo

che tutto stava andando come lei aveva deciso, e anche in seguito sarebbe stato così; poi ridemmo su un suo errore di

francese e lei mi insegnò come protestare in svedese se di

notte il conduttore mi avesse di nuovo impedito di dormire con le sue urla: Linköping! Norrköping! Nyköping!

Gustavson non lo trovarono, ferma sul predellino strinsi la mano a tutti e tre, e proprio un attimo prima della partenza del treno comparve all’improvviso un fattorino con un vaso di lillà bianchi da parte di Olners – lillà bianchi a novembre, ancora più preziosi delle fragole in autunno o dell’uva in primavera.

E così, una donna appena conosciuta, sorridente, ospitale,con un viso da cherubino, non aveva concesso a Ejnar

neppure un minuto per stare solo con me, gli aveva impedito di telefonarmi (ho il sospetto che per tutti quei

giorni lui non fosse andato in ufficio); senza il minimo imbarazzo mi aveva comunicato di aver rispedito indietro

tutt’e due le mie lettere, mi aveva invitato a casa sua, aveva persuaso Ejnar e il dottor Mattis a venire alla stazione – e se avesse messo il suo Ejnar sotto chiave, oppure rinchiusome nei sotterranei della Gestapo o nella lussuosa camera diun lussuoso albergo, i risultati sarebbero stati assolutamente gli stessi. 

Mentre correvo per musei, negozi e salotti, ero stata sotto la sua sorveglianza; in mezzo a tutta la malinconica bellezza autunnale del nero Mälarenilluminato che suscitava nostalgia di Pietroburgo nella «mezza cinese, mezza francese» (così lei mi definiva scherzosamente), non avevo avuto più no man’s land di Dmitrij Georgevič in una stanza del Majestic o del Bristol; solo che io non ero morta, come lui, perché avevo la metà dei suoi anni e mi avevano nutrita di fragole, storione epernici, innaffiati di punch.

Ma ora, nel vagone notturno surriscaldato, sentivo che dalla rabbia impotente stavo passando a un crudo senso di offesa nei confronti di Ejnar: non aveva fatto nulla per stare con me anche soltanto un’ora, in un posto qualsiasi, nella libertà e nel mistero, non aveva fatto nulla perché io fossi di nuovo, una volta soltanto, il suo «martedì». 

Avevo forse bisogno di spiegazioni? Non era forse già tutto chiaro?

Aveva aspettato due anni, la guerra non finiva, si era sposato, aveva sistemato la propria vita (il giorno prima lei

aveva detto: mi toccò trasferirmi da lui, qui da anni è ormai impossibile trovare un appartamento, a qualunque prezzo,e così stiamo stretti, metà dei mobili li teniamo in un deposito); si era sposato, e adesso, insieme a Emma,«accettava sia l’autunno che la primavera».

No, non occorreva spiegare nulla, e non occorreva neppure rievocare il passato, ma perché non stare un po’insieme? 

E d’un tratto mi immaginai quello «stare insieme», e capii che a lui era assolutamente inutile.

Serviva soltanto a me, per potergli dire: sai, Ejnar, sai, caro, la tua Emma ti tiene i piedi sul collo, non ti consegna neppure le tue lettere!

 E, in preda a un’amara e impotente disperazione, sentii che bruciavo tutta per la rabbia, il dolore, l’offesa. 

Nel corridoio il conduttore gridava, e il treno era fermo in qualche posto.

E tuttavia lo amavo, amavo soltanto lui, e anche secontinuavo a ripetermi che non voleva più saperne di me,non lo amavo per questo di meno.

 E forse lo amavo ancora di più dopo l’incontro a Stoccolma, e tutta la mia vita era piena di un disperato amore per lui, un amore che mi

impediva di costruire il mio destino e caricava i miei giorni e le mie notti di un pesante fardello di cui non potevo – e forse non volevo – disfarmi.

 La vita riprese a scorrere rapida. 

E soltanto la mia no man’s land restò come era: pensavo sempre a Ejnar,pensavo al passato lontano e a quello assai prossimo, a Emma, a Stoccolma, al mio futuro, che senza Ejnar mi sembrava impossibile, e con lui irrealizzabile.

Emma a volte mi scriveva. Le sue lettere, in un misto di francese e tedesco, riguardavano soprattutto le stagioni:

Buon Natale! Vi auguriamo tutti e tre un felice Anno Nuovo! Speriamo che in questo ci si possa vedere!... 

E poi un’altra volta: felice Pasqua! In estate pensiamo di andare in Italia.

 E un mese dopo, ancora: abbiamo deciso di passare un mese a Venezia. 

Prendete le ferie, venite a trovarci. 

E una lettera dei primi giorni di luglio: Abbiamo affittato un appartamento vicino a San Zaccaria, c’è una stanza per voi.

Mi sedetti al tavolo, presi un foglio di carta e, sentendo che mentivo ad ogni parola, scrissi:

«Cari Emma ed Ejnar! Grazie dell’invito. 

Sarò felice di rivedervi e di passare una settimana da voi. 

Ho preso le ferie e sarò a Venezia il quindici; il treno arriva in serata,

credo. Se il dottor Mattis è con voi, salutatelo da parte mia.

Vostra...».

Scrissi proprio così, «vostra», e lo feci in modo assolutamente meccanico. In generale in quei giorni mi sforzavo di non pensare: se mi metto a pensare, di certo me ne resterò ragionevolmente a Parigi, e poi mi tormenterò. 

È il destino che gentilmente abbassa il predellino della sua antiquata carrozza e mi tende la mano per aiutarmi a

salire, ma a pensarci, e a pensarci seriamente, si arrivava a uno sciocco calembour: il destino mi tende il piede, mi fa lo

sgambetto per atterrarmi, per mettermi al tappeto... 

A volte mi dicevo persino: forse hai pensato troppo in tutta la tua vita. 

Gli altri non pensano e vivono felici. 

Dài, per una volta concediti la libertà di non pensare. 

Prenderemo per buono l’invito, non staremo a chiedercene il motivo, accetteremo Venezia come si accetta un regalo – non è detto che dalla scatola di caramelle o dal mazzo di fiori debba immancabilmente uscire un serpente o un pipistrello.

Quando il vaporetto si fermò all’approdo, fui spinta verso l’uscita.

 Scesi a terra. Emma dischiuse larghi abbracci, il dottor Mattis era accanto a lei.

 «Questo è Mario» disse presentandomi qualcuno. 

Lanciai un’occhiata, alle sue spalle c’era Ejnar.

 «Ah, come sono felice che siate arrivata!» gridò Emma. 

«Ah, sarà tutto meraviglioso! Su, Ejnar, baciala, anche tu sei terribilmente felice di vederla!

E non ci vediamo da così tanto tempo!».

Lui si chinò ubbidiente e mi baciò sulla guancia. 

Avvenne tutto così in fretta che non ebbi il tempo né di dire qualcosa né di farmi da parte. 

Il dottor Mattis ci guardava immobile.

Non mi sembrò di buon umore.

Un’enorme stanza del loro appartamento dava su una tranquilla piazza con una chiesa, mentre la grande camera

da letto di Emma ed Ejnar si affacciava sul piccolo giardino che stava dietro la casa. 

Il dottor Mattis, la domestica e io occupavamo minuscole camerette lungo il corridoio con vista sul cortile interno; 

 Nella stanza grande, quella dove cenavamo e poi restavamo a lungo, c’erano il tranquillo ordine e il solido comfort

 nordico delle case a lungo abitate: evidentemente Emma li portava ovunque con sé. 

Ma una cosa era nuova, e cioè la presenza di Mario, del quale Emma mi disse che era un vecchio amico di gioventù conosciuto ancora prima della guerra a Firenze, dove un tempo lei aveva studiato pittura; era accaduto prima di «questa» guerra, e adesso lui era venuto a Venezia per rivederla e ricordare il passato. «Ha già quattro bambini,» gridava Emma «Mario, falle vedere le fotografie!».

Più tardi Mario se ne andò ed Ejnar (ora fumava la pipa, e la cosa gli permetteva di parlare sempre di meno) si mise a interrogarmi a fondo, come si conviene a un ospitale padrone di casa, sulla mia vita, sul nuovo appartamento, sui nuovi conoscenti, sul lavoro.

 Emma ascoltava, il suo sguardo si era fatto distratto. Il dottor Mattis, che l’indomani mattina presto sarebbe partito per una gita, si ritirò infine in camera sua, e subito dopo mi congedai anch’io. 

Rimasta sola nella mia stanza.

 Domani. Cosa accadrà domani?

 Mi sedetti sul bordo del letto e, guardandomi ancora una volta intorno, dissi a me stessa che ero venuta

nella speranza di restare finalmente sola con Ejnar, per dirgli che gli avevo scritto, per chiedergli se mi amava ancora, per costringerlo a dirmi come tutto era successo; ero venuta per dirgli che lo amavo come prima, che non potevo più continuare a vivere così, senza sentire da lui neanche una parola.

 Possibile che mi avesse davvero scacciato, scrollato via dalla sua vita senza una sola parola?

E adesso? 

Perché avevano voluto che venissi? 

O lui vuolesempre ciò che anche Emma vuole?

Erano le dieci quando mi svegliai e tesi le orecchie a dei suoni insoliti: un leggero rumore di stoviglie, un canto di

donna – probabilmente è la domestica che canta –, passi nel corridoio, avanti e indietro; la fontana gorgoglia, tintinnano i secchi; un colombo tuba proprio qui accanto. Saltai in piedi, mi lavai, mi vestii e andai nella sala da pranzo.

«Vi stavo aspettando,» disse Ejnar dalla poltrona accanto alla finestra, con un giornale inglese in mano «prenderemo insieme il caffè».

Sedemmo l’uno di fronte all’altro e sul tavolo comparve un’abbondante colazione alla svedese, con tutto quello che occorreva e senza cui Ejnar non poteva vivere neanche a Parigi.

«Adesso andremo a passeggio e io vi mostrerò tutto, tutto, tutto,» diceva Ejnar «fino a stasera sarò la vostra guida».

«Dov’è Emma?».

«Emma è andata con il dottor Mattis a Torcello».

«A Torcello? Per tutto il giorno? Ma doveva andarci?».

«L’ha deciso all’ultimo momento, hanno portato con loro anche Mario».

Avevo l’impressione che mi fosse stata tesa una trappola, che mi fosse stata tesa fin dall’inizio, dal giorno in cui

Emma mi aveva scritto: abbiamo affittato un appartamento,c’è una camera per voi.

 No, molto prima, quando a Stoccolma, alla stazione, aveva detto qualcosa come:

«perché non venite per un po’ in Italia quando noi ci andremo?».


Ejnar e io uscimmo e c’incamminammo senza fretta verso la piazza lungo la Riva degli Schiavoni.

 Tesa com’ero, quel giorno, avvertivo costantemente la totale tranquillità di Ejnar, la sua libertà interiore, la sua certezza che tutto ciò che faceva era giusto. 

Devo riconoscere che non opponevo resistenza, e io stessa dopo un paio d’ore mi sentivo più tranquilla e più libera. 

Ridemmo perfino insieme più di una volta. 

Dopo pranzo, mentre eravamo seduti al Florian, lui mi domandò con la massima semplicità se non c’erano dei versi russi sull’argomento.

«Su quale argomento?» chiesi, e in cuor mio ebbi paura che ci sarebbe stato qualcosa di simile a una spiegazione.

«Su Venezia» disse.

«Ce ne sono molti, moltissimi,» risposi «un giorno, non ora, ve li dirò tutti».

«Me lo aspettavo» disse molto soddisfatto, sorridendo felice.

Verso sera Emma tornò a casa da sola.

«Non siamo andati a Torcello» disse con aria indifferente.

«Quando siamo arrivati all’imbarco non c’erano posti, e il dottor Mattis è dovuto andare da solo, così io e Mario

siamo andati al Lido, e lì abbiamo fatto il bagno e pranzato.

E io mi sono scottata» – scostò le spalline del vestito: la pelle era rossa, infiammata.

Ejnar andò da qualche parte, Emma e io ci sedemmo a tavola per bere il caffè. 

Era allegra, parlava molto, simisurava la temperatura  e mi assicurava che se aveva la febbre era per quella brutta scottatura. Ma non aveva la febbre.

La mattina seguente Emma e Mario andarono a Torcello (lei disse: «non lascio mai nulla in sospeso») e di nuovo rimasi sola con Ejnar.

Quel giorno e i tre giorni seguenti ora li ricordo con sentimenti diversi e confusi: c’era l’attesa di qualcosa che

desideravo fortemente, la cosa per cui ero andata fin lì, e c’era il fastidioso, quasi allarmante presentimento che quello che tanto aspettavo non sarebbe dovuto accadere, che non potevo accettarlo, che aveva qualcosa dell’elemosina fatta da qualcuno nel momento per lui più comodo, un’elemosina fatta a me ed Ejnar insieme. 

A questo si univa l’impressione di tutto quanto avevo visto: la folla variopinta di piazza San Marco, l’eterna festa di luci e

ombre, il crepuscolo alla Scuola di San Rocco, le centinaia di quadri – Sabaoth che si libra in aria dalle nubi spalancate, le babbucce di sant’Orsola, e gli angeli del Bellini che soffiano nella tromba, a me già ben noti. 

Ejnar era con me, vagavamo per le sale dell’Accademia, parlavamo e tacevamo, salivamo sui ponticelli gibbosi, sedevamo in piazzette che a volte non avevano nome, sui gradini dei Frari, riprendevamo a vagare, e ormai sapevo con certezza che tutto questo serviva a Emma, che era stata lei a organizzare tutto: sia l’arrivo di Mario, bello di viso e largo di spalle, sia il mio. 

Il quinto giorno il dottor Mattis partì. Aveva una faccia scontenta e aveva preso a parlare con tutti noi in modo brusco, quasi sgarbato. 

«Ha un’infelice storia d’amore con un’inglese,» disse Emma

prendendolo in giro «pare che lei sia partita ieri per Roma». Ma non le credetti. La partenza del dottor Mattis mi metteva in una situazione difficile e allo stesso tempo un po’ ridicola: non avevo voglia di restare lì in tre. 

«Non sapete quanta simpatia abbiamo per voi,» mi disse Emma la sera, come se avesse indovinato che intendevo affrettare la partenza «in questi giorni siete diventata proprio come una persona di famiglia, ed Ejnar sta così bene con voi.

 Quanto a me, io vi voglio terribilmente bene». 

Amava la parola «terribilmente», mentre io non l’amo affatto. Le credetti?

No, non le credetti neanche per un attimo, ma se crederle sarebbe stato difficile, non crederle lo era ancora di più.

Adesso mi era chiaro: fin dall’attimo in cui ero arrivata mi stava ammaestrando come una bestiola.

 A Venezia, mi tornò in mente, viveva un gatto saggio, e io non avevo voglia di somigliare a quel gatto saggio.

Non posso permetterle di toccare il mio destino, di darmi o non darmi il lasciapassare per questa o quella parte del mio universo, di organizzare come a lei sembrerà più opportuno la mia no man’s land.

 La sera lei va alla Fenice con Mario, e con noncuranza, con tono fintamente distratto, dice che ci sarà la luna piena,che noi potremmo fare un giro a San Giorgio Maggiore. 


Se le darò ascolto sarò certamente, con il suo permesso, meno infelice, ma non posso darle ascolto, sarò io a decidere tutto, in qualche modo, e me ne andrò da qui.

 Lei mi indica una via, e io ne prenderò un’altra. 

Ho il mio mondo, libero e segreto, di cui sono e resterò padrona, e lì non tollererò la sua ingerenza.

Sono seduta al Florian e guardo a lungo la folla che passeggia. 

Come un giorno, guardando la buia Parigi del tempo di guerra, penso: quante sofferenze ci sono state qui,russe e del mondo intero, quanto patire; e ora c’è anche una goccia della mia sofferenza, piccolissima e grandissima. 

Ejnar si avvicina al mio tavolino, ha un volto felice, è abbronzato, dimagrito, così ringiovanito ricordal’Ejnar di un tempo. 

«Andiamo a San Giorgio Maggiore,» dice «abbiamo almeno due ore di libertà finché loro sono a teatro». 

Le sue parole mi colpiscono dolorosamente, mi danno la nausea. 

«Due ore di libertà» ripeto. «Libertà per cosa?».

Si siede, e prima ancora di ordinare qualcosa beve avidamente dal mio bicchiere i resti di una limonata con ghiaccio.

«Ho una sete tremenda» dice. «È un po’ che voglio chiedervelo: come mai non mi avete scritto neppure una volta?».

«Come spiegarvi,» dico «io stessa non lo so. Il tempo è passato, è cambiato tutto. Non era facile scrivere.

 E comunque vi ho scritto, ma non ho spedito le lettere». 

Mi guarda a lungo, da tempo non mi guardava così.

«Perché mi guardate così, Ejnar?

 Non sapete se potete o no? 

Certo che potete, visto che ne avete avuto il permesso».

«Non capisco di cosa stiate parlando».

Ma io non rispondo, e dal mio viso probabilmente lui capisce che non andrò a San Giorgio Maggiore.

 Mi prende con cautela una mano e la stringe nelle sue grandi, calde mani. 

Da qualche parte suona un’orchestra, intorno la festa continua, qui camminano persone allegre, ma io non sono allegra, e... «il giunco pensante mormora, protesta».

«Sapete, Ejnar,» gli dico senza ritirare la mano «una volta, da giovane, provai una terribile delusione quando scoprii (ecco che vi parlo di poesia russa) che il nostro grande poeta Tjutčev aveva rubato il suo verso migliore a un francese. E, a dir la verità, ancora oggi non mi sono ripresa dal colpo».

Ride, rido anch’io, ritiro lentamente la mia mano dalle sue, mi faccio più vicina: 

«Domani parto, Ejnar,» e loguardo attentamente, i suoi occhi sono vicini «e prima che ci separiamo voglio dirvi che qualcosa l’ho imparato in questi anni. 

Quando si schiude una porta o si apre uno spioncino ora non mi soffocano più lacrime di gratitudine,no! 

Non sfrutto ogni occasione e non mi inchino riconoscente a ogni permesso. 

Dopo quello che ho visto non voglio essere, neanche soltanto un po’, l’insignificante bestiola che viene mobilitata, addestrata, spedita da qualche parte, nutrita di gelati o affamata, punita o premiata perché ha rigato dritto».

«Nessuno vi punisce o vi dà da mangiare gelati».

«Voglio dirvi ancora una cosa: se permettiamo a qualcuno di organizzare la nostra no man’s land, alla fin fine, secondo logica, arriveranno a rinchiuderti in una lussuosa camera di un lussuoso albergo, e bruceranno i tuoi libri, e allontaneranno da te tutti quelli che ami. 

Basta cedere una volta – e non ci saranno più limiti, e tutto ti verrà tolto; dov’è il confine, Ejnar?

 Dove saranno allora mistero e libertà?

 Le due guardie (una, tra l’altro, aveva qualcosa di Mario!), l’inquirente, il giudice – tutti si installeranno sul tuo pezzetto di terra».

Adesso ha capito, lo vedo dai suoi occhi.

 Ha capito tutto,fino in fondo, lo conosco troppo bene. 

Ha capito perfino che gli ho scritto, che lo amo. 

E che mi dà nausea la sua tranquilla gioia di sapere che tutto gli è stato permesso.

Passa un minuto, un altro, ma non mi dice nulla. Del resto io non aspetto una risposta: non gli ho chiesto nulla.

Torniamo a casa, io comincio a preparare i miei bagagli, lui sta appoggiato in silenzio al davanzale. 

Metto la sveglia alle sette e mezzo per non fare tardi al treno domani mattina.

Quando tornano dal teatro, Emma è sorpresa:

«Siete a casa? 

Non siete andati in nessun posto?».

«No,» dico «ci abbiamo rinunciato. Siamo stati un po’ al Florian, poi ho fatto le valigie».

Andiamo tutti e quattro nella sala da pranzo e lì, mentre mangiamo qualcosa, noto che Mario ed Emma mi guardano con malcelata ostilità. 

Noto anche che tra i due scoccano scintille. 

Quando lei gli passa il bicchiere, lui le posa la mano sulle dita, e intanto Ejnar dice:

«Hanno asportato il primo strato, hanno tolto la vernice, e

di sotto è apparso san Sebastiano... Chi poteva immaginare una cosa simile!».

«Non appena si saranno annoiati l’uno dell’altro, o la moglie esigerà che Mario ritorni, Emma mi caccerà via con

grandissimo piacere» penso, e bevo il mio quarto bicchiere.

«Non le darò questa gioia».

Li lascio dicendo che voglio svegliarmi presto. 

Grazie di tutto. 

E forse un giorno ci vedremo ancora a Parigi, se loro verranno – non quest’anno, certo, e non il prossimo, magari tra un paio d’anni? 

Emma mi abbraccia, ci baciamo con sonori schiocchi su tutt’e due le guance.

 «Addio, Mario, addio, Ejnar!» dico.

La mattina il vaporetto mi porta alla stazione passando davanti ai palazzi, lungo l’acqua verde del Canal Grande;arrivo al treno all’ultimo istante, il facchino mi spinge sul vagone.

 Tratto peculiare di Venezia: scomparire in un attimo, non correre dietro al treno, non agitare a destra e a sinistra il capo in cenno di saluto come fanno le altre città quando le lasci – svanire in un solo istante, come se nonesistesse, come se non fosse mai esistita.

Nina Berberova, “Il giunco mormorante”

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