ITALIANO / ENGLISH
Motore 49 cc. Sei marce, raffreddamento ad acqua. Freno
anteriore a disco, freno posteriore a tamburo.
Ammortizzatori idraulici. Velocità 49 km/h.
Non è un motorino, è una bomba. Basta togliere la membrana
al carburatore e ti prende i settanta come niente.
Questo pensava Francesco, quattordici anni, mentre sfogliava
una rivista di moto.
Sua madre era in cucina. Stava preparando l’impasto per la
pizza. Francesco prese un bicchiere di succo di pera dal frigo e
le si sedette accanto.
«Mamma io esco.»
«Dove vai?»
«Ma, non lo so. Forse vado da Enrico.»
«Ah...»
La madre continuava a lavorare la pasta, a strizzarla. Ogni
tanto ci aggiungeva un goccio d’acqua. Guardava l’impasto con
un’espressione di odio.
«Prepari la pizza?»
«Sì, ma sta venendo uno schifo. È piena di grumi.»
«Lo sai che i genitori di Enrico gli hanno regalato un’Aprilia
GSW da cross?»
Mentiva. Al suo amico Enrico avevano promesso di comprare
un’Aprilia se, e quel “se” era grande come l’oceano, fosse stato
promosso a giugno, senza neanche una materia.
«Ah, che bello!» gli rispose la madre distratta.
«Sì, lui è contentissimo. E poi non costa molto.»
«Quanto l’hanno pagata?»
«Tre milioni e ottocentomila chiavi in mano.»
«Ah. Allora sono ricchi i genitori del tuo amico.»
«Guarda che non è molto. Esistono degli scooter che costano
più di quattro milioni» continuò Francesco ostinatamente.
«Che fai ricominci?» sbuffò sua madre.
Francesco crollò sulla sedia affranto.
«Dai, ma’, ti prego, comprami un motorino. Ti prego. Sto
malissimo senza.»
«Basta Francesco, sei petulante. Te l’ho detto: è no. Quando
avrai sedici anni e sarai più grande te lo compreremo. Non
possiamo parlarne tutti i santi giorni...»
Francesco rantolò sulla sedia. Allargò le gambe e prese un
grande respiro. Si alzò.
«Va be’, io esco.»
«Torna prima di cena.»
Francesco si infilò la giacca a vento e i guanti. Fuori faceva
freddo. Chiuse la porta di casa e scese le scale di corsa.
Due anni. Due anni non finiscono mai. Era l’unico a non
avere ancora il motorino. Lui e quello sfigato di Enrico. Un
poveraccio, ecco quello che si sentiva.
Poi quando avrò sedici anni tutti i miei amici avranno il 125
e io avrò il 503.
Perché il mondo è così ingiusto?
Uscì dal portone del condominio correndo, tirò fuori
dalla tasca una chiave e aprì il lucchetto che teneva legata la
mountain-bike a un palo della luce. La guardò con disprezzo.
Solo un anno prima era la cosa più bella che aveva, ma ora...
Era solo ferraglia fosforescente.
Ci montò sopra e cominciò a pedalare senza una meta precisa.
Girò in una stradina laterale che si infilava tra due palazzoni in
costruzione.
Non c’era nessuno. Nessuno dei suoi amici.
Decise di fare un po’ di cross. Continuò per la stradina che
presto perse l’asfalto. Camminava tra i ciottoli, con la bocca
faceva il rumore di un motore a due tempi raffreddato ad acqua
e ogni tanto sgommava, immaginandosi di essere sopra una
Aprilia GSW.
Scese dalla bicicletta, se la caricò in spalla e si arrampicò su
per una scoscesa di terra. Arrivato in cima la mise giù.
Rimontò in sella. Si lanciò a tutta velocità lungo la pista di
fango stando attento a non finire con le ruote della bicicletta
nei solchi lasciati dai pneumatici. Fece un paio di salti ma senza
soddisfazione.
Francesco si girò su se stesso e spingendo la bicicletta si
avviò verso il bordo del campo. Tornò sulla strada.
Si fermò davanti all’officina di Romano. Davanti, schierati in
fila, diversi motorini, alcune moto di grossa cilindrata e un paio
di moto da cross.
Francesco appoggiò la bicicletta a un palo e si mise a osservare
i motori, le forcelle.
Da un gabbiotto4
di vetro, adibito a ufficio, uscì un uomo
grasso e pelato. Sopra il naso rotondo poggiavano un paio di
occhiali di tartaruga. Le lenti spessissime gli trasformavano gli
occhi in due puntini neri. Indossava la tuta da lavoro.
«Ciao Romano.»
«Ciao Francesco. Hai visto che bestiaccia?» disse il meccanico
indicando l’Harley.
«Questa è una mille e tre...»
I due si conoscevano bene. Da mesi Francesco era un
frequentatore assiduo di quell’officina.
«Boh, credo di sì.»
«Senti posso vederla...» chiese d’un fiato il ragazzo.
«Vai, vai. Tranquillo.»
Romano uscì dall’officina e Francesco rimase solo. Si avvicinò
a un angolo. Accanto a un mucchio di copertoni usati ci stava
una moto coperta da una vecchia trapunta di lana marrone.
La scoprì.
Eccola. La sua moto.
Diventava ogni giorno più bella.
La sua Aprilia GSW.
Con quei parafanghi viola, il serbatoio metà rosso e metà
viola. Con quei giganteschi ammortizzatori, con le molle dure
e grosse. Il faro piccolo e giallo. Le frecce snodabili, per non
parlare poi delle ruote con quei tasselli che sembravano dei baci
Perugina. Veniva voglia di masticarli. Era alta e affidabile. Era
semplicemente il massimo.
«Lo sai chi se la vuole comprare? Quel ragazzo... come si
chiama? Quello che lavora al bar La Palma.»
La contemplazione fu spezzata dalla voce bassa e rauca di
Romano. Era in piedi, dietro di lui, con le mani sui fianchi.
Anche lui la guardava soddisfatto.
«Come?» disse Francesco ritornando tra i vivi.
«Sì, se la compra il garzone del La Palma.»
«Veramente?»
Il peggiore dei suoi incubi si era avverato.
Se la sarebbe comprata qualcun altro. Odiò il garzone del
bar La Palma. Lo conosceva. Bruno Martucci detto il Pagnotta.
Francesco ignorava l’origine di quel soprannome. Se lo ricordava
bene però. Brutto.
«Nooo!» mormorò tra sé Francesco in preda alla disperazione.
«Gli ho detto che poteva prenderla, ma prima dovevo chiedere
a te che cosa volevi fare. Ci sei prima tu. Allora la vuoi?»
«Sì... Sì, la voglio io» disse Francesco sconsolato.
«E i tuoi?»
Francesco si girò di nuovo verso l’Aprilia. Vide il luccichio
metallico della marmitta a espansione. Tornò a guardare il
meccanico.
«Hanno detto che me la comprano.»
«Sei sicuro?»
«Certo che me la comprano.»
«Quando?»
«Anche domani.»
Romano sembrava dubbioso.
«Che è, non mi credi?» fece Francesco spavaldo.
«No. No. Ti credo. Ti credo.»
Qual era il piano di Francesco? Nemmeno lui lo sapeva
con esattezza. Nulla gli era chiaro in quel momento. L’unica
possibilità che intravedeva era quella di tornare a casa e attaccare
un pianto greco fino a che i suoi, stremati, non gli avessero
detto di sì. Sì, sì e sì.
Che cosa avrebbe potuto promettergli? Che nella prossima
pagella ci sarebbero stati solo sette e otto, che avrebbe portato
Pinto, il loro cane, tutte le sere a fare pipì ai giardinetti, che
avrebbe preparato la colazione per i prossimi cinque anni a
tutta la famiglia, che si sarebbe rifatto ogni giorno il suo letto e
anche quello di sua sorella, che non avrebbe mai più detto una
parolaccia in vita sua.
Tutto. Tutto. Avrebbe fatto tutto. Ma mai la sua Aprilia a
Bruno Martucci. Questo no, questo no.
Ora la cosa che devo fare è portarla via da lì. Levarla dalle grinfie di quel bastardo del
Pagnotta…
La porto a casa poi la faccio vedere a mio padre. Gli spiegherò tutte le caratteristiche
tecniche. Lo convincerò.
Sì, era l’unica strada.
-Romano, l’unica cosa è che mio padre la vuole provare. Lui è uno di quelli che non si fida.
Gli ho detto che è perfetta e che ha fatto appena duecento chilometri, - disse in un fiato,
cercando di essere il più deciso possibile.
Il meccanico intanto aveva preso a rimontare il motore della Harley.
-Non c’è problema. Basta che venga qui prima delle sei e mezza e la può provare come gli
pare.
-Sì ma lui torna da lavoro verso le sette, sette e mezza.
-Mi passi quel pezzo, per favore? – disse Romano indicandogli un grosso ingranaggio
cromato. Francesco lo prese da terra e lo passò al meccanico.
-Grazie. Allora digli che può venire domani. Noi siamo aperti tutto il giorno. Tu lo sai, no?
Francesco parve riflettere. Si aggirò indeciso per l’officina, si avvicinò al meccanico fingendo
di essere interessato al lavoro. Poi, facendosi forza, disse tranquillo:
-Forse la cosa migliore è che gliela porto io a far vedere questa sera. Poi la chiudo nel garage
con la macchina di mio padre e domani vengo con mia madre e te la paghiamo…
Ce l’ho fatta. Sono riuscito a dirlo.
Romano sembrava non aver udito le parole del ragazzo. Continuava a lavorare come nulla
fosse. Francesco aspettava impaziente. Non ce la fece più.
-E allora che ne dici?
Non lo vedeva in faccia. Romano era piegato sopra quel mastodonte di motocicletta.
-Ci sto pensando, - disse dopo trenta secondi che sembravano due secoli.
-Guarda che non ti devi preoccupare. È tutto a posto. Ti lascio qui la mia bicicletta.
Il meccanico si girò su sé stesso e lo scrutò a lungo con i suoi piccoli occhi da marmotta. Poi
disse poco convinto:
-Ma tu la sai guidare la moto?
-Tranquillo Romano. Non c’è problema. Io al mare ho un Benelli a marce. Lo guido sempre.
-Vabbè prendila. Ma sta’ attento che se caschi e la rovini paghi tutto tu.
-Tranquillo.
Ce l’ho fatta. È mia. E vai così.
Romano si alzò e si stiracchiò. Sembrava un tricheco.
-Forza tiriamola fuori questa belva, - disse.
Francesco sentiva l’emozione corrergli sui nervi e il cuore pompargli adrenalina nelle vene.
La portarono alla luce del sole. Era ancora più bella. Ora doveva solo convincere i suoi
genitori. Uno scherzo da niente.
-Allora ti sei deciso a prenderla, - gli fece Marco.
Francesco fece segno di sì con la testa. Non riusciva a parlare.
-Aspetta che te la pulisco, c’è un po’ di polvere.
-Non importa. Non importa.
Voleva solo andarsene. Portare a casa la moto e prepararsi per il ritorno di suo padre.
La afferrò per il manubrio. Era enorme. Gli tremavano un po’ le gambe ma faceva di tutto per
non mostrarlo. Anche la saliva era azzerata. Ci montò sopra. La moto si abbassò sotto il suo
peso ma era ancora altissima e Francesco toccava appena con la punta dei piedi.
-Come ti ci trovi? – chiese Marco. Lo guardava sorridendo e intanto si puliva le mani sporche
su uno straccio. Francesco decise che gli era proprio simpatico quel ragazzo.
-Bene, - gli rispose sorridendogli a sua volta.
Provò ad accenderla con una mossa acrobatica della gamba ma con scarso successo. I suoi
colpi erano deboli. Doveva prenderci la mano. Provò un’altra volta. Nulla da fare. Si guardò
in giro smarrito.
-Se non giri la chiave puoi restare là tutta la notte, - gli fece Romano appoggiato all’ingresso
dell’officina. Aveva l’aria sempre più dubbiosa.
Cretino. Idiota che non sono altro. Quello adesso ci ripensa. Girò la chiavetta di accensione.
Una spia verde si illuminò.
Francesco affondò con tutta la forza sulla leva di accensione.
Preciso.
Strook.
La moto, come per magia, si accese con un borbottio metallico.
Fantastico.
-Allora… buon viaggio. Stai attento, - gli disse ancora Marco.
E ora veniva il difficile. Francesco in vita sua aveva guidato tre volte un motorino. Una volta
un Ciao e due una vespa con risultati molto mediocri. Aveva però letto bene Il grande libro
della moto in cui al terzo capitolo erano spiegate dettagliatamente tutte le istruzioni necessarie
per guidarla. In cuor suo non era più tanto sicuro che quel breve apprendistato gli fosse ora
sufficiente.
Si ripeté mentalmente le regole.
Uno: tirare la leva della frizione. Lo fece.
Due: abbassare, in modo da inserire la prima, la leva del cambio. Lo fece.
Tre: lasciare dolcemente la leva della frizione. Lo fece.
La moto partì a razzo sulla strada impennandosi su una ruota sola. Proseguì così per una
decina di metri poi crollò vicino a un camion del latte fermo al lato della strada. Lo schivò per
miracolo. Francesco proseguì, in prima, con il motore che gli urlava sotto il culo fino a
quando si ricordò il punto quattro: mettere la seconda.
In qualche modo riuscì a inserirla ma avendo lasciato la manopola del gas la motocicletta
prese ad andare avanti a saltelli singhiozzanti. Sentì appena Marco che gli strillava dietro:
-Attento all’autobus!
Si girò e vide davanti a sé un muro arancione fatto di lamiera e vetro che gli veniva incontro
urlando come un bufalo scatenato. Si piegò da una parte e lo lisciò per pochi millimetri.
S’infilò finalmente nel flusso di macchine che andava nella sua direzione e si allontanò.
Fu un ritorno veramente impegnativo e Francesco sudò moltissimo. La moto gli si spense un
numero imprecisato di volte.
Dopo mezz’ora era più o meno in grado di cambiare, di frenare e
di girare il manubrio.
Era soddisfatto.
Mancava ancora un po’ di tempo al ritorno di suo padre.
Decise di fare un salto a trovare i suoi amici. A fargliela vedere. Probabilmente erano tutti al campetto.
Ci si sentiva maledettamente bene su quella moto. Si guardava nello specchietto e si trovava
più bello, più grande, più paraculo.
Ce la posso fare. Papà in fondo le ama le moto. Quando era giovane aveva un Guzzi Falcone,
me lo racconta ogni volta. Lo convincerò. Lo convincerò.
Si, ce la poteva fare ma dentro sentiva un po’ d’ansia compressa, nascosta tra le pieghe dello
stomaco. Anche il respiro gli si era accorciato. Aveva osato troppo?
No, non ho osato troppo per niente.
Fece due grossi respiri poi girò l’acceleratore portando la moto su di giri.
È proprio una ficata ‘sta moto.
Entrò nel campetto come se fosse la cosa più normale del mondo che lui stesse a cavallo di
una moto.
Sciolto. Rilassato.
I suoi amici erano là, seduti sulla solita panchina. Lo videro. Francesco fece un saluto con la
mano e poi avanzò piano.
Mi stanno guardando tutti.
Scese dalla moto, la mise sul cavalletto.
-Ti sei comprato la moto? Non è possibile! – gli disse incredulo Enrico, un ragazzo alto e
magro come un chiodo con delle grosse scarpe da ginnastica nere ai piedi. Era stupito.
-Sì, oggi. Ti piace?
(Bugia. Bugia gratis).
-Francesco, è pazzesca! – continuava a ripetere Enrico.
-Lo so, lo so.
Tutti, anche le ragazze, ci giravano intorno e Francesco si sentiva bene. I commenti si
sprecavano.
-È bellissima!
-Non è troppo alta?
-Mi piace la forma della sella e i colori del serbatoio.
Un rumore potente ruppe la conversazione, di motori a quattro tempi. Poi sbucarono da sopra
la collina i più grandi, sulle loro moto. Erano quattro. Girarono intorno a Francesco e gli altri.
Il loro capo, Piero, un giovane con i capelli cortissimi biondi e gli occhiali da mosca gettò a
terra il mozzicone che aveva tra le labbra. Lo pestò.
-È tua? – fece a Francesco guardandolo torvo. Era la prima volta che gli rivolgeva la parola. A
Francesco prese a battere forte il cuore.
-Sì.
Piero fece ancora un paio di giri intorno alla moto. I ragazzini lo guardavano.
-Bella!
-Grazie.
Enrico diede a Francesco una pacca sulle spalle. Aveva passato l’esame. Incominciava a
imbrunire e decise che era il momento di tornare a casa. Probabilmente suo padre era già
rientrato. Montò sulla moto e l’accese al primo colpo.
Piero e i suoi amici si erano seduti e fumavano. Lo guardavano. A un tratto Danilo, un
ciccione, seduto alla destra di Piero, pelato e con una maglietta nera dei Metallica, si alzò in
piedi. Si avvicinò a Francesco e poi guardando i suoi amici disse ridendo:
-Ma questa non è la moto che si voleva comprare il Pagnotta?
Tutti si sganasciarono dalle risate.
Che cazzo c’è di tanto divertente? Che cazzo vi ridete?
Mise la marcia. Con la coda dell’occhio vide che anche Piero era rimontato sulla moto. Gli si
fece accanto rombando.
-Allora vieni a farti una corsetta?
-No… No, grazie.
-Hai problemi? – continuò Piero con un ghigno. Sembrava uno squalo con quegli occhialetti
scuri. Uno squalo affamato di carne umana.
-No, è che devo tornare a casa, - disse Francesco cercando di fare lo sciolto.
-Dai, solo una corsetta. Così mi fai vedere come ci salti con questa belva.
-No, non posso. Devo andare.
Francesco comprese in un attimo che quello era uno stronzo e che si voleva solo divertire alle
sue spalle.
Sono sfortunato da morire.
Doveva andarsene, il più velocemente possibile. I suoi amici, piccole e inutili formiche, lo
osservavano scuotendo la testa. Anche Enrico aveva sul volto un’espressione di addolorata
rassegnazione. Perse la testa. Con lo stomaco che gli risaliva su per la gola scattò in avanti.
Voleva disperderli, scappare fino a casa, non farsi vedere mai più.
Ma non era possibile.
Piero con un balzo lo superò e gli si mise davanti con tutta la moto bloccandolo. Gli afferrò il
manubrio.
È la fine.
-Che fai, scappi? – gli disse levandosi gli occhiali. Aveva gli occhi affilati e inespressivi di un
barracuda.
-No… no.
Le parole gli morirono in bocca. Non riusciva più a parlare.
Danilo e gli altri lo affiancarono. Gli fecero cerchio intorno.
Era la situazione peggiore in cui si era cacciato in vita sua.
-Andiamo
Girarono le moto verso il campetto, tranquilli, sorridenti. Anche Francesco fu costretto a
girarsi e a seguirli. Enrico, vicino alla bici, faceva segno di no con la testa.
Era come andare al patibolo, e quelli intorno a lui non erano soltanto motociclisti di periferia,
ma boia insensibili assetati del suo sangue.
Arrivarono in fondo al campo. Si disposero in fila.
Davanti avevano una ripida discesa, poi un’improvvisa salita che terminava con un balzo.
Francesco li aveva visti saltare da quella cunetta, fare voli di dieci metri e atterrare nel fango
su una ruota sola.
No, non è possibile. Mi massacrerò.
Avrebbe voluto dirgli tutto questo ma in bocca, al posto della lingua, aveva una gigantesca
lumaca viscida e morta.
-Vado io, - disse Danilo.
Partì rombando. Scomparve giù per il discesone e poi si arrampicò, minuscolo, su quel muro
di fango fino in cima, con il motore che urlava e con la testa abbassata. Decollò in aria per
parecchi metri, la moto di sbieco, levò su un pugno e urlò un grido di battaglia. Poi sparì oltre.
-Vai, tocca a te, - gli disse Piero. Era un comando. Devo obbedire se voglio tornare a casa
tutto intero.
-Ora vado, - rispose Francesco. -Ora vado.
Si fece mentalmente il segno della croce.
Ce la posso fare, cazzo! Sono un kamikaze. Banzai!
Prese un bel respiro e si lanciò giù per la discesa. Attraversò il mare di fango attento a non
cadere. Si reggeva a malapena. Non respirava. Non frenava. Non pensava. Le ruote
scomparivano nel pantano e tiravano su schizzi di melma che gli finivano in faccia, tra i
capelli. Si sporcò i pantaloni. Giunto in fondo si sentì meglio, gli rimaneva da affrontare solo
la salita e poi il salto. Strinse i denti e accelerò.
La salita era ripida e la moto faceva fatica. Francesco cercava di mantenerla su di giri ma le
ruote slittavano sollevando fango. Si stava impantanando. Se non si fosse mosso subito
sarebbe rotolato indietro e sarebbe caduto come un cretino. Aveva gli occhi di Piero puntati
sulla schiena. Strinse i denti. Scalò. Accelerò a palla.
Forza bella!
La moto tirò fuori tutti i suoi cavalli e aggredì la salita. Francesco fu sospinto indietro
dall’accelerazione ma non mollò. Continuò a salire a duemila, saltando come una pulce
impazzita. Andava sempre più veloce. Giunse all’apice della collina come un proiettile e
saltò.
Noo!
Ora era in aria. In aria con la sua moto. Lui e lei da soli. Lontani. A bocca aperta. Sotto
vedeva Danilo, insetto, sulla sua moto, il campo sporco di spazzatura, la strada ingolfata dal
traffico, le palazzine bianche e marroni del suo comprensorio, il balconcino davanti alla
cucina di casa sua.
È bellissimo!
Poi precipitò giù. Atterrò malamente, sbilanciato in avanti. Crollò a terra, lontano dalla moto.
L’impatto del terreno sulle ossa e sul collo lo rintronò. Riaprì gli occhi e vide verde. Il verde
delle ortiche. Non riusciva a dare graduatorie ai suoi dolori. Cosa faceva più male? La
caviglia, il braccio, la testa, le ortiche, la figura di merda?
Si rialzò. Zoppicando su una gamba arrivò davanti alla sua moto. Era là, a terra. Uno stallone
ferito in battaglia. La forcella storta. La ruota anteriore piegata. Il faro rotto in mille pezzi. Ci
si chinò sopra e incominciò a singhiozzare. Dietro di sé sentiva le risa di Danilo. Risa
eccessive e sproporzionate. Ma non gliene importava nulla. Aveva pensieri terribili che gli
affollavano la testa: che cosa avrebbe detto a suo padre, a sua madre, a Romano che si era
fidato di lui. Che cosa avrebbe raccontato a Enrico, a Manuela e a tutti gli altri.
A bocca stretta, solo per sé stesso, incominciò a ripetere:
-Sono un cretino. Sono un povero cretino. Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?
Sì, era solo un bambino. Si sentiva più piccolo che mai con quel moccio che gli colava dal
naso, la vista sfocata dalle lacrime e il magone in gola.
Piangendo provò a tirare su la moto, a spostarla, ma non ci riuscì. Era piantata nel fango.
Danilo continuava a ridere e non lo aiutava.
Questa è la punizione che ti meriti per aver desiderato troppo quella moto, per aver mentito
per impossessartene. Sei un poveraccio Francesco. Vai via! Sentiva rimbombargli dentro le
parole di sua madre.
Si pulì il naso con la manica della camicia.
Ma non era ancora finita. Da lontano arrivavano degli strilli inumani, come quelli di un
maiale sgozzato.
Che succede?
Di corsa vide apparire sul ciglio della collina una figura bassa e larga. Lo riconobbe subito. Il
Pagnotta!
No, il Pagnotta no.
Con le mani in testa il Pagnotta, ancora vestito da garzone, con la fascia nera intorno alla vita
e il grembiule bianco sporco di fango, si gettò giù e a grandi falcate raggiunse la moto. Era
incredulo.
Con uno sguardo bovino la fissava a bocca aperta.
-Non ci posso credere! La mia moto! Non ci posso credere! La mia moto! – ripeteva
automaticamente. Danilo continuava a ridere. Francesco non sapeva che fare. Si spostò in là, a
testa bassa, come se a terra non ci fosse soltanto la moto ma la mamma del Pagnotta
assassinata.
-Mi dispiace Pagnotta. Non è stata colpa mia, - provò a dire Francesco.
Sapeva di aver detto una stronzata ma non era in grado di dire altro, il cervello gli era partito
per la tangente.
Il Pagnotta si girò e per la prima volta guardò Francesco. Aveva strani occhi spiritati e un
ghigno che gli storceva la bocca.
È un mostro e ora mi massacra.
-Io non mi chiamo Pagnotta! – gli ringhiò e lo spinse.
Francesco crollò a terra affondato da un pugno. Un treno in un occhio. Poi il bestione gli fu
sopra. Incominciò a colpirlo dovunque, senza senso.
-La mia moto! La mia moto! – latrava.
Francesco si chiuse a riccio. Le braccia intorno alla testa.
Poi tutto terminò.
Francesco riaprì gli occhi. C’era Piero che aveva preso da una parte il Pagnotta e gli stava
parlando. Non capiva cosa si stessero dicendo. Poi vide Danilo aiutare il Pagnotta a tirare su
la moto e a spingerla verso la strada. Piero gli si avvicinò.
-Tirati su, - gli disse e gli porse la mano.
-C’ho parlato io con il Pagnotta. L’ho calmato. Non ti farà niente ma ora vai a casa.
Francesco ricominciò a piangere. Forse erano state proprio le parole gentili di Piero a
scatenare di nuovo il pianto. Lo aveva colto impreparato. Pierò rimontò sulla sua moto.
Francesco, con il naso sporco di sangue e moccio, gli si avvicinò.
Il motociclista si era rimesso gli occhiali ed era tornato improvvisamente di nuovo lontano,
distante.
-Che devo fare ora? – gli domandò Francesco tirando su con il naso.
Cazzi tuoi!
Piero partì su una ruota e si allontanò così. Francesco rimase a guardarlo scomparire. Il rombo
della marmitta scomparve poco dopo.
Si avviò verso casa zoppicando. Aveva male dovunque. E il duro doveva ancora venire.
Avrebbe dovuto affrontare suo padre, sua madre e raccontargli tutto.
È tostissima.
Enrico era seduto sulla panchina. Lo aspettava.
-Eccoti finalmente. Hai fatto un botto incredibile! – gli disse, poi gli si fece accanto, gli mise
un braccio intorno al collo. Si incamminarono.
-Comunque non andavi niente male su quella salita, te lo giuro, - disse Enrico.
Francesco si fermò e puntò i suoi occhi azzurri, rossi per il pianto, in quelli del suo amico e
con un mezzo sorriso interrogativo disse:
-Dici?
LIBRO : Nel nome del figlio Niccolò Ammaniti
I percorsi dell'adolescenza
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ENGLISH
49cc Engine, six-speed gearbox, water cooling
Front disc brake, back drum brake. Hydraulic shock absorbers. Speed 50 km/h.
This isn’t a scooter, this is a beast. All you need to do is remove the carburetor
membrane and it can easily reach 70 km/h.
This was what Francesco thought, 14 years old, as he was flipping through the pages of a bike
magazine. He was sitting on the toilet.
He had been sitting there for at least half an hour, and his butt was starting to hurt. But that
magazine entranced him. He couldn’t help it. Especially the test drives. He could see himself
on top of those two-wheeled beasts, running between the cones, trying the speed
recovery from 0 to 100. That was what he wanted to be when he grew up: a motorbike
tester.
“Hey, what happened to you? Are you dead?”
His mother’s voice from behind the door.
“I’m coming. I’m coming.”
Francesco got up, buttoned his jeans up, put the magazine in his back pocket and went out.
His mother was in the kitchen. She was preparing the pizza dough. Francesco poured himself
a glass of pear juice from the fridge and sat down next to her.
“Mom, I’m going out.”
“Where are you going?”
“Well, dunno. Maybe I’ll go look for Enrico.”
“Oh…”
His mother kept on straining herself on the dough, squeezing it and spreading it using the
rolling pin. Every once in a while, she would add some water. She stared at the dough with a
hateful expression.
“Are you making pizza?”
“Yes, but it’s turning out horribly. It’s clumpy.”
“Did you know that Enrico’s parents have bought him a GSW Aprilia motocross bike?”
He was lying. His friend Enrico was promised an Aprilia only if, and that “if” was as big as
the ocean, he passed all the subjects in June.
“Oh, that’s nice!” answered his mom, absent-mindedly.
“Yeah, he’s very happy. It’s not too expensive either.”
“How much did they pay for it?”
“3 million and 800 thousand liras, key-in-hand."
“Oh. Then, your friend’s parents must be rich.”
Francesco’s mom was finally done. She picked up the dough ball and wrapped it in a damp
cloth. She placed it on the cupboard. She took out the string beans from the fridge and started
washing them.
“It’s not that much, you know. There are some scooters which cost more than 4 million,”
insisted Francesco stubbornly.
“Are you starting with me again?” grunted his mother.
Francesco collapsed on the chair, distraught.
“Please ma’, buy me a scooter. I beg you. I need it really bad.
”
“Stop it, Francesco, you’re being petulant. I told you: it’s a no. When you turn 16 and get
older, we’ll buy it. We can’t be having this discussion every single day…”
Francesco wheezed on the chair. He spread his legs, took a deep breath and got up.
“Fine, I’m leaving.”
“Be back before dinner.”
Francesco put on his wind breaker and his gloves. It was cold outside. He closed the front
door and ran down the stairs.
Two years. Two endless years. He was the only one without a scooter. Him, and that loser
Enrico. A character, that’s what he felt like.
As soon as I turn 16, all my friends will have a 125cc, while I’ll have the 50. Why is the world
so unfair?
He ran out of the apartment building door, took out a key from his pocket and opened the
padlock which kept his mountain bike tied to a streetlight. He looked at it contemptuously.
Just a year back, it was the most beautiful thing in his possession, but now… it was just flashy
junk.
He mounted it and starting pedalling without a destination. He turned into a side road between
two buildings under construction. Nobody was there. No one of his friends. He decided to go
dirt biking.
He kept on going along the path which soon lost its paving. He was walking on
the pebbles, imitating the noise of a two-stroke water cooled engine, and sometimes he
screeched with the bike, dreaming of riding an Aprilia GSW.
He got off the bike, put it on his shoulders, and climbed a steep unpaved path. When he
reached the top, he put it down. In front of him spread an abandoned court. On its sides
there were piles of broken pieces of furniture, TVs, nets and other trash. Amidst the grass and
the nettle, you could make out the tracks left by the older guys’ dirt bikes. At the end, in the
distance, three of them were sitting on a crushed bench.
They were smoking, and surely, they were talking about their bikes. They resembled medieval
knights sitting beside their trusted stallions.
It would have been great being like that, chilling and sitting with them, talking, with your own
bike in front of you.
He got back on his saddle.
He then shot at full speed along the muddy path, paying
attention not to get the bike wheels stuck in the tracks left by the tires. He performed a couple
of jumps, without satisfaction.
A mechanical noise suddenly broke the silence.
A shrill shriek of an engine revved-up to the
max.
A motorbike was coming towards him at full speed, jumping on the bumps and filling
the air with a white and smelly gas. Francesco threw himself to the side and he almost landed
flat, sprawled in the mud. The biker passed a few centimeters from him.
He yelled at him: “Get out of here with that bike, moron!” To then disappear behind a dune. Francesco
turned around and headed towards the edge of the court, pushing the bike. He went back on
the road. He crossed a big busy road and went to the arcade. Only a few people were there,
and none of his friends. Just a couple of guys whom he barely knew. He drove a little with
the Formula 1 and went back out.
His friends had probably gone to the town center.
This sucks!
He stopped by Romano’s garage. In the front, there were various scooters, some heavy
motorbikes and a couple of dirt bikes, all aligned.
Francesco dropped the bike off on a pole and started looking at the engines and the forks.
A young boy, 16 years old, with a ponytail, an aquiline nose and glasses was working close to a
Kawasaki. He was wearing a blue coveralls dirty with grease, dark boots and he had a black
smear on a cheek. He was opening the engine head and putting in the gaskets
.
“Hi, Marco!” Said Francesco to him as he sat on a small wooden stool.
“Hi Fra. Have you come to take in the view?” Said the boy, smiling. He had a nice smile,
ruined by a missing front tooth.
“Well, I was passing by.”
“So, what are you going to do with that gem? If you don’t hurry up, they’ll snatch it away.”
“I don’t know. I’m not too sure I like it anymore. Maybe I should buy a KTM, it’s more
compact.”
“Suit yourself. Still, you won’t find a bike this sturdy and with that framework.
Take it from
Marco, who knows a thing or two about bikes.”
“You think so…” said Francesco, reflecting.
He thought very highly of Marco. He had seen him ride in the court more than once. He
saw him ride for more than 200 meters on one wheel. He knew how to handle a bike.
From his windbreaker he took out a chewing gum pack.
“Do you want one?”
“No, thanks.”
Francesco remained to watch Marco at work a bit longer. After that, he got up, pulled up his
jeans and went into the garage.
Inside was dark. Only a long, discharged neon2 lit the place a little.
On one side there was a big table chock full of tools and an old radio playing light music.
In the middle of the room
towered a humongous Harley-Davidson, disassembled into a thousand pieces. It was all
studded and covered in black leather. On the tank, there was the drawing of a naked woman
morphing into a torch.
From a glass bullpen, which was used as an office, came a fat and bald man. On his round
nose a pair of tortoise glasses were placed. His eyes looked like two black dots through the
extra thick lenses. He was wearing a coverall.
“Hi Romano.”
“Hi Francesco. Have you seen this monster?” said the mechanic pointing at the Harley.
“This is one of those a thousand and three cc2…”
The two of them knew each other well. Francesco had been a regular visitor of the garage for
a few months.
“Dunno, I think so.”
“Listen, can I see it…” said the boy in one breath.
“Sure. Don’t worry.”
Romano went out of the garage and Francesco remained alone. He got close to a corner. Close
to a bunch of used tires there was a moto covered by an old brown quilt.
He uncovered it.
There she was. His moto.
She got more beautiful with each day.
His Aprilia GSW.
With those purple mudguards, the half red half purple tank. Those huge shock absorbers, with
thick and tough springs.
The small and yellow headlight. The articulated turn signals.
Not to mention the tires, with those knobbles resembling Baci Perugina chocolates.
You were tempted to chew them.
It was tall and trustworthy. It was simply the best.
“You know who wants to buy it? That guy… what’s his name? The one working as an
assistant at the La Palma bar.”
“Really?”
His worst nightmare had come to life.
Someone else was going to buy it. He hated the assistant of the La Palma bar. He knew him.
Bruno Martucci, a.k.a. “il Pagnotta”. Francesco ignored the source of the nickname. He
remembered him well though. Ugly.
He was like a dimply bull, with a low set forehead and
always sweaty. One of the violent kind, one who won’t let you say even a word before
beating you to a pulp. He imagined him in front of him, on his bike, dicking around all
over the court. Popping wheelies.
.
A nightmare. The worst one of his life.
Nooo, mumbled Francesco to himself in despair.
“I told him he could have it, but first of all, I had to ask you what you wanted to do with it.
You came first. So, do you want it?”
“Yes… Yes, I want it,” said Francesco, sorrowfully.
“What about your parents?”
Francesco turned towards the Aprilia once more. Seeing the shine of expansion muffler made
him emotional. He turned back to the mechanic.
“They said they’ll buy it.”
“Are you sure?”
“They’ll buy it for sure.”
“When?”
“Even tomorrow.”
Romano looked doubtful.
“What is it? You don’t believe me?” said Francesco in a smug way.
“No. No. I believe you. I believe you.”
What was Francesco’s big idea? He wasn’t even sure of it himself. He was sure of nothing
in that moment. The only possibility he could think of was to go back home, start whining
with his parents, annoying them until they said yes.
Yes, yes and yes.
What could he promise them back?
That his next report card would only show sevens and eights, that he would take their dog
Pinto out peeing at the park every night, that he would make breakfast for his whole family
for the next 5 years, that he would make both his and his sister’s bed, that he would never
swear again in his life.
Everything. Everything. He would do everything. But giving his Aprilia to Bruno Martucci,
never. Never, never.
All I have to do now is take it away from there. Snatch it from that bastard Pagnotta’s
clutches…
I’ll bring it home and show it to my dad. I’ll explain him all the technical characteristics. I’ll
convince him.
Yes, it was the only way.
“Romano, thing is, my dad wants to try it. He is one of those who needs proof.
I told him that it’s perfect and that it had barely run 200km,” he said that in one go, trying to be as
resolute possible.
In the meantime, the mechanic had started re-assembling the engine of the Harley.
“No problem. All he needs to do is come here before 6 30pm, and he’ll get to try it as much as
he likes.”
“Yeah, but he comes back home from work at 7, 7 30pm.”
“Can you hand me that part, please?” said Romano pointing to a big chromed gear.
Francesco took it from the ground and gave it to the mechanic.
“Thank you. Then, you can tell him to come tomorrow. We’re open all day. You know it,
don’t you?”
Francesco seemed to be reflecting. He wandered indecisive in the garage and approached the
mechanic, feigning interest in his job. After that, he mustered some courage and calmly
said: “Maybe it’s best if I take it and show it to him tonight. After that I’ll lock it in the garage
together with my dad’s car and tomorrow I’ll come here with my mom and pay for it…”
I made it. I managed to say it.
It seemed as if Romano hadn’t heard the boy’s words. He kept on working as nothing had
happened.
Francesco was waiting eagerly. He couldn’t take it any longer.
“So, what do you say?”
He couldn’t see his face. Romano was bent on that gigantic bike.
“I’m thinking about it,” he said after thirty seconds, which felt as long as two centuries.
“There’s no need to worry, you know. It’s alright. I’ll leave my bike here.”
The mechanic turned around and studied him for a while with his marmot’s eyes. Then, he
replied, unconvinced:
“Do you even know how to drive the bike?”
“Don’t worry, Romano. There’s no problem. I have a geared Benelli at my sea house. I
drive it all the time.”
“Ok, take it. But beware, if you fall and damage it, you’re going to pay it in full.”
“Don’t worry.”
I made it. It’s mine. Let’s go.
Romano stood up and stretched. He looked like a walrus.
“C’mon, let’s bring this beast out.” he said.
Francesco felt the excitement running through his nerves and his heart pumping adrenaline in
his veins.
They brought it out under the sunlight. It was even more beautiful. All he had to do
now was convince his parents. Child’s play.
“So, you finally decided to buy it.” Said Marco to him.
Francesco nodded yes. He couldn’t speak.
“Wait, let me clean it, there’s some dust.”
“It doesn’t matter, it doesn’t matter.”
He only wanted to leave, take the moto home and get ready for his dad to come back.
He grabbed it by the handlebar. It was huge.
His legs were shaking a bit, but he tried his best
not to show it. His saliva was also non-existent.
He mounted on it. The bike lowered with his
weight, but it was still very tall and Francesco could barely place his tiptoes on the ground.
“How does it feel?” asked Marco. He looked at him with a smile, while cleaning his dirty
hands with a rag. Francesco decided that he really liked that guy.
“Good.” He replied, smiling back.
He tried to turn it on with an acrobatic move of his leg, but unsuccessfully.
His blows were weak. He needed to get the hang of it.
He tried once more. Still nothing. He looked around, at a loss.
“If you don’t turn the key, you can try all night,” said Romano, leaning on the garage
entrance. He looked more doubtful by the second.
Dumbass. I’m such an idiot. He’s going to reconsider now. He turned to key. A green light
turned on. Francesco sunk on the ignition lever with all his strength. Neat.
Strook.
The moto turned on with a metallic mumble, as if by magic.
Amazing.
“Well then… have a nice trip. Be careful,” said Marco again.
Now came the hard part. In all his life, Marco had driven a scooter three times.
Once a Ciao, twice a vespa, all with mediocre outcomes. However, he had carefully read The big
motorbike book, whose third chapter contained all the detailed instructions that you needed to
drive it. In his heart of hearts, he wasn’t too sure that that short training was enough in that
moment.
He mentally went through the rules.
One: pull the clutch lever. He did that.
Two: lower the gear handle, to insert the first. He did that.
Three: gently release the clutch lever. He did that.
The moto shot away on the road on one wheel. He went on like that for ten meters before
collapsing next to a milk truck parked on the side of the road.
He dodged it by some miracle.
Francesco kept on going forward, in first, while the engine was screaming under his butt, until
he remembered step four: put in second.
Somehow, he managed to insert it, but since he had left the acceleration handle, the bike
started hiccupping forward. He barely heard Marco, who yelled from behind:
“Watch out for the bus!”
He turned and saw an orange wall in front of him made of steel and glass coming towards
him, screaming like a raging bull. He leaned on one side and avoided it by a few
millimeters.
Finally, he merged into the car flow which headed in his direction and
proceeded forward.
The way back was very challenging, and Francesco sweated a lot. The bike died on him more
times than he could count.
Half an hour later, he was more or less able to shift gears, brake
and turn the handlebar.
He was satisfied.
There was some time before his dad came home. He decided to swing by his friends, to
show them the bike.
They probably were all at the park.
He felt so damn good on that moto. He would look in the rear-view mirror and see himself as
more attractive, more adult, and more of a smartass.
I can do this. After all, dad loves motos. When he was younger, he had a Guzzi Falcone and he
keeps telling me that. I will convince him. I will convince him.
Yes, he could make it, but inside, he felt some compressed anxiety, hidden in the folds of the
stomach.
His breath got shorter too. Had he dared too much?
No, I did not dare too much at all.
He took two deep breaths and turned the accelerator handle, revving up the moto.
This moto is so cool.
He went to the park acting as if his being on a bike was the most normal thing in the world.
Chill. Relaxed.
His friends were there, sitting on the usual bench.
They saw him. Francesco waved with his
hand and drove slowly.
Everyone’s looking at me.
He dismounted from the bike and placed it on the kickstand.
“You bought the moto? No way!” said Enrico in disbelief. He was tall and lean as a rail, big
black sneakers at his feet. He was astonished.
“Yes, today. Do you like it?”
(Lie. Gratuitous lie.)
“Francesco, it’s incredible!” Enrico kept on repeating.
“I know, I know.”
Everybody was circling around the bike, even the girls, and Francesco felt good. Comments
were overflowing.
“It’s awesome!”
“Isn’t it too tall?”
“I like the shape of the seat and the tank colors.”
A loud noise of four timed engines stopped the conversation.
Then, the older guys appeared from behind the hill on their bikes.
They were four.
They circled around Francesco and the others. Their leader, Piero, a boy with very short blonde hair and big lensed glasses
,
threw the cigarette butt he had in his mouth on the ground. He stomped on it.
“Is it yours?” he asked Francesco, scowling at him.
This was the first time he had ever talked to him.
Francesco’s heart started beating fast.
“Yes.”
Piero went around the moto a couple more times. The younger kids were looking at him.
“Nice!”
“Thanks.”
Enrico slapped Francesco’s shoulders. He passed the test. The sky was darkening and so he
decided it was time to go home.
His father had probably come back.
He hopped on the moto and turned it on first try.
Piero and his friends were sitting and smoking. They were looking at him.
At one point, Danilo, a fatso sitting on Piero’s right, bald and with a black Metallica shirt, stood up.
He got closer to Francesco, after which he turned back to his friends, and laughing he said:
“Isn’t this the moto that Pagnotta wanted to buy?”
They all burst into laughter.
What’s so fucking funny? What the fuck are you laughing for?
He inserted the gear.
Out of the corner of his eye, he saw that Piero too had mounted on his
bike. He approached him, rumbling.
“So, how about a little race?”
“No… no, thanks.”
“Got problems?” insisted Piero, with a grin. Those small dark glasses made him look like a
shark. A shark hungry for human flash.
“No, it’s just that I need to go home,” said Francesco, pretending he was relaxed.
“C’mon, just a little race. That way, you can show me how you can jump with this beast.”
“No, I can’t. I must go.”
Francesco immediately understood that he was an asshole who wanted to have a laugh behind
his back.
I’m the unluckiest boy in the world.
He had to leave, as fast as he could. His friends, like small and useless ants looked at him
shaking their heads. Enrico too had a face showing painful resignation. He lost his mind. With
his stomach going up to his throat, he shot forward.
He wanted to scatter them, run home, never show himself again.
But that was not viable.
Piero passed him in a single bound and placed himself in front of him with his moto,
blocking his way.
He grabbed his handlebar.
This is the end.
“What are you doing, running away?” he said, taking his glasses off. His eyes were as sharp
and emotionless as those of a barracuda.
“No…no.”
The words died in his mouth. He couldn’t speak anymore.
Danilo and the others flanked him.
They made a circle around him.
This was the worst situation he had ever got himself into in his life.
“Let’s go.”
Calm and smiling as they were, they turned their bikes towards the park. Francesco was
forced to turn around and follow them. Enrico, who stood close to his moto, was shaking his
head, signing no.
It was like going to the gallows, and those around him were not mere suburban motorcyclists, but
ruthless bloodthirsty executioners.
They arrived at the end of the court and formed a line.
In front of them there was a steep descent, followed by a sudden ascent which ended in a
jump.
Francesco had seen them jump from that small hill, fly for ten meters, to then land in the mud
on one wheel.
No, it’s impossible. I’ll get crushed.
He wanted to say this to them, however, he had a huge slimy dead snail instead of his tongue
in his mouth.
“I’ll go first.” Said Danilo.
He started with a rumble. He disappeared going downhill and then he climbed up, tiny, on
that mud wall up to its peak, with his engine screaming and his head down.
He flew for some meters, his moto tilted, a fist in the air and screaming a war cry.
Then he disappeared beyond.
“It’s your turn, go.” Said Piero. That was an order. I need to obey if I want to make it back
home in one piece.
“I’m going.” Replied Francesco. “I’m going.”
Mentally, he made the sign of the cross.
I can do it, goddamit! I’m a kamikaze. Banzai!
He took a deep breath and threw himself down the hill.
He crossed the mud sea paying
attention not to fall. He was barely holding up. He wasn’t breathing.
He wasn’t braking. He wasn’t thinking.
The tires were sinking in the marsh
and throwing mud clumps in his face and hair.
His trousers got dirty. As he reached the bottom he felt better, and he had
only the ascent and the jump to confront. He clenched his teeth and accelerated.
Going uphill was steep and the bike was straining.
Francesco tried to keep it revved up, but
the wheels were slipping, throwing mud everywhere.He was getting stuck. If he didn’t act
quickly, he would roll backwards and fall like an idiot.
Piero’s eyes were set on his back.
He clenched his teeth. He downshifted and accelerated all the way.
C’mon girl!
The moto brought out all its horsepower and tackled the ascent. Francesco was thrown back by
the acceleration, but he didn’t let go. He kept on climbing with 2000 rpm, jumping like a
crazy flea.
He was going faster and faster.
He reached the hilltop like a bullet and jumped.
Noo!
He was now in the air. In the air, with his moto. He and she, alone.
Far away. Mouth opened.
Below him he saw Danilo, a bug on his moto, the court littered with trash, the busy road, the
brown and white buildings of his district, the small terrace in the kitchen of his house.
It’s beautiful!
Then he plummeted.
He landed badly, tilted forward and unbalanced.
He crashed on the ground, far from his moto.
The collision of his bones and neck with the ground made him numb.
As he opened his eyes, he saw green.
The green of nettle.
He couldn’t assess how much pain he felt. What hurt more?
The ankle, the arm, the head, the nettle, losing his face?
He got back up. Limping on one leg, he got in front of his bike. It was there, on the ground.
A stallion wounded in battle. The fork was crooked. The front wheel was bent.
The headlight was smashed in a thousand pieces. He bent over it and started sobbing.
Behind him he heard Danilo’s laughter.
An excessive and disproportionate laughter.
However, he didn’t care.
Terrible thoughts were crowding his mind: what was he going to tell his dad, his mom,
Romano, who had trusted him.
What was he going to tell Enrico, Manuela and all the others.
With his mouth tightly closed, he started repeating to himself:
“I’m an idiot. I’m a poor idiot. What have I done? What have I done?”
Yes, he was only a kid. With snot coming from his nose, his vision blurred by the tears, and a
lump in his throat he had never felt so little.
Crying, he tried to lift and move away the moto, but he couldn’t. It was stuck in the mud.
Danilo kept on laughing and wouldn’t help him.
You deserve this punishment because you were too eager to have that moto, and you lied to get
your hands on it. You’re pathetic, Francesco. Go away!
He heard his mother’s words echoing inside.
He wiped his nose with the sleeve of his shirt.
But it wasn’t over yet. From afar, some inhuman screams could be heard, similar to those
of a pig with his throat slit.
What’s going on?
On the edge of the hill, a low and wide figure appeared running.
He instantly recognized him. Pagnotta!
No, not Pagnotta.
Hands on his head, still dressed as an assistant, with a black belt around his waist and the
white apron dirty with mud, he shot down and reached the bike with big strides.
He was in disbelief.
He stared at it with a bovine look and his mouth open.
“I can’t believe this! My moto! I can’t believe this! My moto!” he repeated automatically.
Danilo kept on laughing.
Francesco didn’t know what to do. He moved away with his head low, as if on the ground
there was the dead body of Pagnotta’s mom and not only the bike.
“I’m sorry Pagnotta. It wasn’t my fault.” Francesco tried to say.
He knew that what he said was bullshit, but he couldn’t say anything else, his brain had
already derailed.
Pagnotta turned around and looked at Francesco for the first time. His eyes were weirdly
possessed, and a sneer twisted his mouth.
He’s a monster and now he’ll beat me to a pulp.
“My name is not Pagnotta!” he growled and pushed him.
Francesco collapsed on the ground, downed by a punch. A train in his eye. Then the beast got
on top of him. He started hitting him everywhere, without a logical order.
“My moto! My moto!” he barked.
Francesco closed on himself like a hedgehog, arms around his head.
Then, everything stopped.
Francesco opened his eyes again.
There was Piero, who had moved Pagnotta to one side and was talking to him.
He couldn’t make out what they were saying.
Then, he saw Danilo helping Pagnotta lift the moto and push it towards the road.
Piero got closer to him.
“Get up.” He said to him and gave him a hand.
“I talked with Pagnotta. I calmed him down. He won’t lay a finger on you, but you have to go home now.”
Francesco began crying again. Maybe, what made him cry again were precisely Piero’s kind words.
He did not expect it.
Piero mounted back on his moto.
Francesco approached him, with his nose dirty with blood and snot.
The motorcyclist had put his glasses back on, and he suddenly became distant and cold again.
“What do I do now?” asked Francesco, sniffling.
“That’s your fucking business!”
Piero started away on one wheel and left like that. Francesco remained there watching him
disappear. Soon after, the exhaust rumble disappeared.
He began limping towards home. Everything hurt.
But the tough part was yet to come. He had
to face his dad, his mom and tell them everything.
It’s very tough.
Enrico was sitting on the bench, waiting for him.
“Finally, there you are. Your bang was loud!” he said.
He then got closer to him and put an
arm around his shoulders. They started walking together.
“By the way, you weren’t half bad going uphill, I mean it.” Said Enrico.
Francesco stopped and fixed his blue eyes, now red because of the crying, into his friend’s,
and with an interrogative half smile he said:
“Really?”
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